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Fascicoro E (n. 71).

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DELLA REGIA DEPUTAZIONE

Di

STORIA PATRIA

PER L'UMBRIA

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PERUGIA
UNIONE TIPOGRAFICA COOPERATIVA
- (PALAZZO PROVINCIALE)

1924
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MILATTINO DELLA REGIA DEPUTAZIONE DI STOMA PATRIA
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INDICHI

DEL PRESENTE VOLUME

Memorie e Documenti.

« Bosone Novello de’ Raffaelli poeta eugubino del se-

colo XIV (A. ALUNNO) . È : . Logos 9

Il Romanzo di Perugia e Corciano (M. CATALANO). » 41
‘« De gestis et vita Braeel-» di A. Campano. A pro-
posito di storia della Storiografia (R. VALENTINI) . » 153-
-Un altro importante documento sulla moneta casciana
(A: MORBINE) =. Sx È $ ; i 7 30101
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Anno XXVII. FascicoLo I (n. 71).

BOLLETTINO

DELLA REGIA DEPUTAZIONE:

DI

STORIA PATRIA

PER L'UMBRIA

VoLUME XXVII.

PERUGIA
UNIONE TIPOGRAFICA COOPERATIVA
(PALAZZO.PROVINCIALE)

1924
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PRESIDENZA DELLA R. DEPUTAZIONE

(1924 26)

PRESIDENTE

Prof. Comm: FRANCESCO GUARDABASSI

VICE -PRESIDENTE

Prof. Comm. Mons. D. MICHELE FALOCI PULIGNANI

SEGRETARIO - ÉECONOMO

Prof. LUIGI TARULLI BRUNAMONTI

COMMISSIONE PER LE PUBBLICAZIONI

Ansidei V. — Briganti F. — Degli Azzi G. — Faloci Puli-

gnani M. — Fumi L. — Tenneroni A.

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BOSONE NOVELLO DE RAFFAELLI

POETA EUGUBINO DEL SEC. XIV

Il valore di Bosone come poeta è così modesto, che me-
riterebbe di essere appena ricordato nella nostra « Antolo-
gia » (1); ma la sua importanza come uomo politico, i perso-
naggi coi quali fu in relazione e i notevoli e copiosi studi
di cui egli fu oggetto ci costringono ad intrattenerci su lui
meno brevemente di quello che comporterebbe la sua pro-
duzione poetica.

Dopo pertanto aver toccato per sommi capi della sua
vita, a noi del resto pochissimo nota, e delle poche poesie
sicuramente sue, passeremo a trattare con doverosa brevità
due punti che maggiormente attrassero l’ attenzione e l’ in-
teresse degli studiosi, i quali bene spesso arrivarono a con-
clusioni contrarie ed opposte. Fu Bosone amico di Dante e
l'ospitó in sua casa a Gubbio? A Bosone o a Cola di Rienzo
diresse il Petrarca la celebre canzone

« Spirto gentil, che quelle membra reggi, » ?

Dall’ esame sereno e spassionato di tali quesiti confi-
diamo di poter trarre nuovi elementi atti a meglio farci co-
noscere quest’ uomo, che durante le peregrinazioni del suo
esilio ricopri importantissime cariche in varie città d'Italia

(1) Antologia di Poeti e Rimatori Umbri a cura di Virrorio CorBuCCI e
AURELIO ALUNNO di prossima pubblicazione.
4 A. ALUNNO

e che nel 1337 assurse alla ‘suprema dignità di senatore di
Roma.

Primo a darci notizia di Bosone fu Francesco Maria
Raffaelli da Gubbio nello studio Della famiglia, della persona,
degli impieghi e delle opere di messer Bosone da Gubbio, che
pubblicò nel tomo XVII delle Deliciae eruditorum (1) di Gio-
vanni Lami. Il Raffaelli probabilmente trasse le notizie da
documenti contenuti nei libri di antiche memorie, che nel
sec. XVII raecolse intorno alla famiglia Raffaelli, Vincenzo
Armanni da fonti, se non contemporanee a Bosone, almeno
di poco posteriori. Ma le notizie dell'Armanni dovevano con-

tenere non poche lacune per la vita di Bosone ed il Raf-.

faelli, desideroso di presentare una biografia completa di
questo suo illustre antenato, cercò di colmarle, basandosi
talvolta sulla tradizione, tal’ altra forse su pure congetture
personali; ond’ è che dal punto di vista storico e critico il
valore ne viene alquanto attenuato.

Dopo il Raffaelli, fra coloro che scrissero intorno a Bo-
sone e l’opera sua (2), merita speciale menzione Giuseppe
Mazzatinti, il quale pubblicò un notevole studio sull’ argo-
mento nella rivista Studi di Filologia Romanza, diretta da
Ernesto Monaci (3). Il Mazzatinti segue la via opposta a

(1) Florentiae, Paperini, 1755.

(2) Su quella raffaelliana ne ritessé la biografia G. Maria MAZZUCCHELLI
nell’opera Gli Scrittori d’Italia (Brescia, Rossini) da dove G. Not la ri-
produsse per premetterla al testo de L’Avventuroso Ciciliano nelle due edi-
zioni: fiorentina (Fortunatus Siculus, ossia L'Avventuroso Ciciliano di Busone
DA GuBBIo, romanzo storico scritto nel 1311 ed ora per la prima volta
pubblicato da G. F. Nott ..., Firenze, Tipografia all'insegna di Dante,
1882) e milanese (che forma il 8219 tomo della Biblioteca scelta di opere
‘italiane antiche e moderne, Milano, Silvestri, 1833). Anche l'edizione del-
l'Avventuroso Ciciliano fatta su quella fiorentina del Nott dagli editori
M. Mazzmi e G. Gaston (è il volume 3°, serie I della Biblioteca dei Clas-
sici), Firenze, 1867, porta in principio la biografia del Mazzucchelli.

(3) Bosone da Gubbio e le sue opere in Studi di Filologia Romanza. Roma,
Loescher, 1884, fasc. 2°, pagg. 277-334.

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BOSONE NOVELLO DE' RAFFAELLI, ECC. 5

quella del Raffaelli, ché, mentre questi fa di tutto per col-
mare le laeune che si presentano nella ricostruzione della
vita del poeta eugubino, quegli invece tende ad aumentarne
il numero e ad ingrandirne le dimensioni col non accogliere
se non fatti rigidamente comprovati da documenti autentici
e col rigettare sistematicamente tutto quanto ci è stato tra-
mandato da tradizioni, anche se antiche.

*
* #

Nacque Bosone nella seconda metà del sec. XIII — circa

il 1280, pare — da Bosone I di Guido di Alberigo della no-

bile famiglia de’ Raffaelli. Abbiamo notizie di lui per la
prima volta nel 1300, quando Gubbio fu per due volte stra-
ziata dalle lotte intestine fra Guelfi e Ghibellini. Bosone era
di parte ghibellina e allorchè il 23 maggio di quell’ anno
Uguccione della Faggiola, potestà di Gubbio, insieme a U-
berto Malatesta e Federico da Montefeltro, cacciò la fazione
guelfa da Gubbio, egli primeggiò fra i più accesi Ghibellini.
Ma il trionfo fu di breve durata, chè nel mese seguente i
Guelfi, che erano ricorsi per aiuto a Bonifazio VIII, ritor-
narono insieme col cardinale Napoleone Orsini, Governatore
di Spoleto, e dopo un breve assedio, aiutati anche dai Peru-
gini, ripresero la città e ne scacciarono gli avversari.
Bosone, divenuto ormai capo della locale fazione ghi-

bellina, riparò con essa in Arezzo. Da questo momento al

1315 non ci è dato sapere in quali città dimorasse, nè che
cosa facesse. Certo è però che qualche tempo prima del '15
doveva essere rientrato in patria, poichè in quell’anno venne
nuovamente mandato in esilio insieme con altri Ghibellini di
Gubbio. La lista di proscrizione, fatta compilare da quel
Cante de’ Gabrielli, che aveva già condannato Dante per
barattiere, e da Pietro di Corrado della Branca, si conserva
ancora nell'Archivio comunale di Gubbio e porta il n. 9.
Bosone co’ suoi riparò per la seconda volta in Arezzo,
6 A. ALUNNO

della quale città fu potestà dal 13 settembre 1316 al marzo
dell’anno seguente (1). Fu quindi successivamente potestà di
Viterbo nel ’18 (2) di Lucca nel '19 (3), di Todi nel '24 (4);
nel 1327 poi capitano del popolo in Pisa, dove, lasciato come |
vicario da Lodovico il Bavaro, fu fatto prigioniero da Ca-
struccio Castracani il 29 d'aprile del '28 (5); la sua prigio-
nia non durò a lungo per essere stato il Castracani colpito
da morte il 30 settembre di quello stesso anno. Il 15 set-

|

tembre del 1337 infine, insieme col compatriota Jacopo de'
Gabrielli, fu da Benedetto XII eletto senatore di Roma (6);
in tale onorevole carica, che abitualmente durava un anno, 4
rimase fino al 2 ottobre del 1338, quando egli e il Gabrielli |
ebbero a successori Pietro Colonna e Matteo Orsini (7). | |
Quindi ne perdiamo le traccie per diversi anni e ritroviamo

il :suo nome, come di persona ancor viva, soltanto in un do-
cumento del 1349 (8). Con ogni probabilità mori in quest'anno

(1) Munaromi, Rerum italicarum scriptores, tomo XXIV, col. 865. — |
AnMANNI, Lettere, vol. I, pag. 708 ; Storia della famiglia Bentivoglio. Bologna, :
Longhi, 1682, pag. 137. |

(2) F. Bussi, Istoria della città di Viterbo. Roma, Bernabò e Lazzarini, |
1742, pag. 386. í

(8) Vedi Bandi Lucchesi, del sec. XIV, editi dal Boxer. Bologna, Ro- |
magnoli, 1868, pag. 239. |

(4) RAFFAELLI, Op. cit., pag. 504.

(5) ArmanNI, Lettere, vol. I, pag. 272; vol. III, pagg. 318, 890. — |
Virnawr, Cronache di Firenze, tomo I, libro X, cap. 81. — Ammirato, Storie |
.Fiorentine, libro VII, anno 1828. |

(6) Ne danno notizia fra gli altri: OnzsciwsENr, Stato di S. Maria in
Cosmedin, libro III, cap. 4. —- RAFEAELLI, Op. cit., pag. 309 e segg. — |
TugmER, Codex diplomaticus domini temporalis S. Sedis. Roma, 1861-62, II,
pagg. 27, 89, 87, 88.
| (7) Con bolla del 26 luglio 1338 il papa aveva prolungato l'ufficio se- |
natorio di Bosone e di Jacopo (TgHEINER, II, n. 58); il 2 ottobre del 38 |
invece nominò i due sopra ricordati. Ci è sconosciuta la ragione che indusse |
il Pontefice ad agire in tal maniera. |

(8) Archivio Armanni, vol. XVIII, B, 12, pagg. 801 e 386, intitolato : |
« Transunti d’istromenti antichi ».
BOSONE NOVELLO DE’ RAFFAELLI, ECC. 7

o nei primi del ’50, poichè diversamente, come ben nota il
Raffaelli (1), dovremmo trovare il suo nome nelle cronache
di Guerriero Berni, nelle quali è fatto largo cenno delle vio-
E lente lotte che nel 1350 si erano nuovamente risvegliate in
j i Gubbio. Con certezza però soltanto nel 1377 sappiamo che
|

|

era già morto (2).

*
* *

Che Bosone fosse poeta non v' ha dubbio ; ci è attestato
| dai codici 135, 137 e 138 della Nazionale di' Firenze, nei
| " quali è chiamato « poeta de la cictà d'Agobio », e dal giu-
| dice Armannino da Bologna che nel 1325 all'illustre eugu-
bino dedicava la sua Fiorita (3). Ma quali sono le poesie da:
| attribuirsi con certezza a Bosone? Esse sono poche e, come

già avvertimmo, di scarso valore. i
Tiene il primo posto il noto capitolo in terza rima sulla
| Divina Commedia, che incomincia:

Però che sia più frutto e più diletto.

|

|

| In esso Bosone si propone visibilmente di fortificare la

| parte teologica del poema sacro, la qual cosa, se si tien pre-
sente che in quel tempo Dante era accusato di eresia, po-
trebbe logicamente apparire ed effettivamente essere nell’eu-

| gubino una premurosa preoccupazione di difendere la me-

| moria dell'amico. Si conserva in manoscritti contemporanei

[ o quasi all’ autore e di solito è unito alla Divina Commedia ;

la concordia di quasi tutti i codici nell'attribuirlo a -Bosone

(1) Op. cit., pag. 218.
(2) Vedi il sopra ricordato Archivio Armanni, pag. 586.
| (3) MazzamINTI, Studio sulla « Fiorita », in Giornale di filol. romanza,

| È n. 6, pag. 3 e segg. i

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8 A. ALUNNO

toglie via ogni dubbio sulla paternità (1). Fu pubblicato per
la prima volta nella Vindeliniana del 1477 con questo titolo:
« Questo capitolo fece messer Busone da gobbio il quale:
parla sopra tutta la Commedia di dante alleghieri di Fi-
renze » ; e più tardi nelle edizioni del De Romanis (Roma,
1815-17, pagg. 108-112; Roma, 1820-22, vol. IID, in quella
padovana della Minerva (1822, vol. V, pagg. 269-14), nella
napoletana del 1829 a cura di Giovanni Rossi e nella già ri-
cordata Biblioteca dei classici, ‘collezione Mazzini e Gaston,
del 1867.

Viene poi un sonetto diretto ad un altro grande esule,
all'amico Emanuele Giudeo, in occasione della morte di Dante.
Emanuele Giudeo (2), poeta contemporaneo, amico e disce-
polo di Dante, è autore di una festosissima frottola intito-
lata Bisbidis, nella quale volle rappresentare la vita che si
menava alla corte di Can Grande della Scala, dove appunto
con ogni probabilità strinse relazione ed amicizia con Dante;
scrisse inoltre in ebraico un poema o raccolta di composi-
zioni cne intitolò Mekhabberoth, nella ultima parte del quale
fa la descrizione dell’Inferno e del Paradiso e vi si riscontrano
indiscutibili imitazioni dell’ opera dantesca (3). In questo so-
netto Bosone invia a Emanuele le condoglianze per la morte
della di lui donna diletta e coglie l'occasione per unirvi il
compianto per la contemporanea morte dell’ Alighieri, espri-

(1) È attribuito a Bosone nei manoscritti L, 70 e D, 58 della Comu-
nale di Perugia; in un codicc della Nazionale di Roma e in numerosi ma-
noscritti ricordati e numerati dal De Barnes nella Bibliografia dantesca.
Prato, Tip. Aldina, 1845.

(2) Non è stato ancora possibile stabilire se sua patria sia Gubbio,
Roma od altra città; perciò non entra nella presente Antologia.

(8) Fra coloro che trattarono di Emanuele Giudeo in rapporto a Dante
ricorderò: Ta. Paur, Immanuel und Dante in Jahrbuch der deutschen Dante-
gesellschaft, III, 1871, pag. 433 e sgg. — Carpucci, Studi letterari. Livorno,
Vigo, 1880, pag. 256. — L. Mopona, Rime volgari di Immanuele Romano
poeta del sec. XIV. Parma, Pellegrini, 1898 (in 25 esemplari per nozze).

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j BOSONE NOVELLO DE' RAFFAELLI, ECC. 9:

mendo tutto il suo cordoglio per la scomparsa del comune
amieo. Emanuele, confondendo gentilmente in una le due
sventure, risponde a' Bosone con il seguente sonetto pieno
di sconforto e di desolazione :

Io, che trassi le lagrime dal fondo
de l’abisso del cor che ’n sù l’envea,
piango, chè ’1 fuoco dil duol m'ardea,
se non fosser le lacrime in che abbondo;

chè la lor piova ammorta lo profondo
ardor, che del mio mal fuor mi traea;
per non morir, per tener altra vea,
a percoter sto forte e non affondo.

E ben può pianger cristiano e giudeo
e ciaschedun sedere in tristo scanno;
pianto perpetual m’è fatto reo

perch’io m’accorgo che quel fu il mal’anno.
Sconfortomi, ben ch'i' veggio che Deo
per invidia dil bel fece quel danno.

Un altro sonetto, contenuto nel codice Barberiniano 2229

pag. 64 e pubblicato per la prima volta dal Raffaelli, che-

incomincia :

Spirito santo di vera profezia

indirizzò Bosone al poeta Pietro da Perugia, di cui fa cenno

il Vermiglioli (1), il quale rispose col sonetto:
A Dio non fu giammai tanto soggetto.
Un altro sonetto ancora scrisse Bosone :

Io veggio un verme venir di Liguria

(1) Memorie di Jacopo Antiquari. Perugia, Baduel, 1813, pag. 127,.
nota 19.

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ream To fs) 10 A. ALUNNO

pubblicato pure dal Raffaelli, che lo disse « cavato dal ca-
talogo dei codici mss. Riccardiani », e dal Trucchi (1) che
lo estrasse da copia del codice del Redi. Questo sonetto si

ricollega a quella strana maniera di poesia cabalistica — ed.

anzi può esserne considerato uno de’ più antichi esemplari
— che divenne celebre nel ‘400 col Burchiello ; e al Bur-
chiello questo sonetto fu in parecchie stampe attribuito, ma
oggi è sicuramente dimostrato che esso appartiene a Bosone.

Viene infine un altro capitolo in terza rima sulla guerra .

dei Cristiani contro i Turchi, scritto probabilmente nel 1345 (2).
E' contenuto nel codice Barberino XLV-130 e fu pubblicato
dall’Allacci e dal Raffaelli. La presa di Tolemaide nel 1291
da parte dei Musulmani e la successiva caduta delle colonie
‘cristiane in Oriente miserò. tutto il mondo cristiano in grande
apprensione; dovunque si senti l’ impellente necessità di una
grande crociata, che servisse non tanto a liberare la Terra-
Santa, quanto a frenare ed a respingere la minacciosa avan-
zata degli infedeli in Occidente. Ma ormai il tempo eroico
delle crociate era per sempre passato. Il papato e l' impero
in decadenza, gli altri regnanti in continua discordia e spesso
in guerra aperta rendevano impossibile la riunione di un
‘forte esercito capace di misurarsi con le potenze musulmane.
La crociata pertanto, che fu predicata per ben tutta la-prima
metà del ‘300, non ebbe mai luogo, poiché la spedizione de-
.gli Ospedalieri nel 1320 e quella del 1345 promossa dal
Pontefice, da Venezia e dal re di Cipro, e per il modo come
si svolsero e per i loro risultati, possono considerarsi delle
crociate vere e proprie parodie. Nè valsero a tal’ uopo la
fervida opera di Raimondo Lullo, gli ingegnosi studi e pro-
getti del veneziano Sanuto, il lodevole zelo dei pontefici.
Bosone, come anche il Petrarca, visse quell’ ora di an-

(1) Poesie Italiane . Inedite di Duegento Autori. Prato, Guasti, 1846;
‘pag. 225.
(2) Vedi RAFFAELLI, op. cit., pag. 138 e sgg.

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BOSONE NOVELLO DE’ RAFFAELLI, ECC. 11

siosa aspettativa per il grande evento, e quando finalmente;
fallito il tentativo del 1345, cadde ogni speranza, espresse
in questa sua canzone con bella franchezza e dignitoso co-
raggio, per quanto in una forma non troppo lodevole dal
punto di vista letterario, tutta l’' interna sua amarezza, non
risparmiando nè pontefici, nè monarchi, nè potenti.

A Bosone inoltre furono a torto attribuiti anche altri
componimenti poetici. Così il Raffaelli gli attribui una estesa
epitome in terza rima della Divina Commedia in undici capi-
toli, il primo dei quali incomincia : |

‘+ Nel mezzo del cammin di nostra vita.

Questa epitome peró dev'essere restituita a Mino di Vanni
Aretino per la concorde testimonianza dei manoscritti (1).

A Bosone pure il codice Casanatense d. v. D attribuisce
un sonetto in risposta ad un altro che gli avrebbe indiriz-
zato Cino da Pistoia in occasione della morte di Emanuele
Giudeo. Cino caccia Dante ed Emanuele nell’ Inferno, tra gli
adulatori, accanto ad Alessio interminelli. Bosone però non
aggrava la mano su i due morti poeti ed anzi, contro quanto
dice l’accusatore, afferma che essi sono nelle fiamme del
Purgatorio a purificarsi dei loro peccati, dove resteranno
fino a

pU che giunga lor lo gran soccorso (2).

Ma nè Cino, nè Bosone potevano scrivere di Dante e di
Emanuele con tanto cinismo e con tanta irriverenza e ben
concluse il Carducci (3), quando scrisse in proposito: « No,
l| amoroso messer Cino, l' amico di Dante e d’ Emmanuele,

(1) MAZZATINTI, Op. cit., pag. 327 e ‘28.
(2) Ultimo verso del sonetto attribuito a Bosone.
(3) Op. cit., pag. 270.
*-— M Leer x —————— —- ———
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12 A. ALUNNO

non può aver pensato questi rei. versi; e' debbono esser fat-

tura d’un guelfo arrabbiato che volle sfogar la paura mes-

sagli a dosso dalle vittorie di Castruccio, attaccandola con

quel piccolo resto di ghibellini dispersi che raccoglievasi

per avventura intorno a Bosone: lo arguisco dal vedere ne- |

gli ultimi versi mentovato Castruccio come morto ».
Che cosa ci resta dunque dell'opera poetica di Bosone?

Nulla più che due capitoli e tre sonetti ; e tuttavia non con-

cluderemo col Mazzatinti che, mercè la critica, Bosone ha

perduto ogni lode di letterato, chè le sue poesie hanno in-

‘tanto sicuramente valore storico e linguistico e volta a volta

non mancano di qualche pregio letterario.

Ed ora passiamo a trattare con tutta la brevità possi-
bile delle relazioni che passarono fra Dante e Bosone.

Un notevole gruppo di studiosi, fra cui il Raffaelli, il
Mazzucchelli, il Marcoaldi, l'Arrivabene, l’ Ugolini, ecc., am-
mette senz'altro che Dante fu a Gubbio, amico ed ospite di

‘ Bosone; un altro gruppo non meno numeroso, fra cui lo
Scartazzini, il Carducci, Teodoro Hell, Elisabetta Cavallari,
il Gregorovius, il Modona. ecc., ritiene invece che Bosone fu
sicuramente amico di Dante, ma mette in dubbio la dimora
di questi in Gubbio; lo Zingarelli al contrario, se nega la
tradizione letteraria, ammette come assai probabile la sua
dimora in Gubbio; altri infine propendono a credere, ma
con riserva, che quanto si é detto intorno alle relazioni fra
Dante e Bosone non abbia alcun fondamento storico e per-
ció da rigettarsi, perché in nessun modo provato. Uno solo,
che io sappia, non ha dubitato di pronunziare un giudizio
definitivo, sperando di risolvere in tal modo una volta per
sempre la dibattuta questione. Questi è il Mazzatinti nel ri-
cordato suo studio su Bosone. Si direbbe che questo illu-
stre studioso abbia' il desiderio di demolire e che provi un
BOSONE NOVELLU DE’ RAFFAELLI, ECC. 13

senso di piacere allorchè crede di esser riuscito a spezzare
qualcuno dei tanti fili che ci legano al passato. Egli però
basa i suoi ragionamenti su di un principio che la sana cri.
tica non può accettare; egli cioè non dà alcun valore sto-
rico alla tradizione, negando categoricamente quanto essa
ci ha tramandato, sempre che non sia confortato da docu-
menti ineccepibili.

A proposito dunque di Dante e Bosone, dopo aver di-
mostrate arbitrarie alcune affermazioni del Raffaelli, perchè
senza prove; dopo averci fatto sapere che il sonetto

Tu che stanzi lo colle ombroso e fresco (1)

non è certamente di Dante, come si è creduto per lungo
tempo; dopo aver ricordato che Ubaldo di Sebastiano da
Gubbio, autore del Teleutelogio, il quale chiama Dante suo
a teneris annis praeceptorem, non ha nulla a che vedere con
Bosone o con un suo figlio; dopo infine aver affermato che
anche la tradizione del monastero di Fonte Avellana nei ri-

(1) Si conserva in cornice nella Sperelliana di Gubbio. Eccolo testual-
' mente:

Danti a ms. Bozone Rephaelli d'Agobbio.

Tu che stanzi lo colle ombroso e fresco
ch’ è co! lo fiume che non è torrente
Linci molle lo chiama quella gente
in nome italiano e non thedesco.

Ponti sera e mattin contento al desco
poi che del car figliuol vedi presente
el fructo che sperasti e si repente
s’ avaccia ne lo stil greco e francesco.

Perché cima d'ingegno non s' astalla
in questa Italia de dolor hostello
di cui si speri già cotanto fructo.

Gavazzi pure el primo Raphaello
che tra docti vedrallo esser reducto
come sopr’ acqua si sostien la galla.
14 A. ALUNNO

guardi di Dante è falsa e che, riandando la biografia del-
l'Alighieri, non si trova un certo periodo di tempo nel quale
possa stabilirsi il suo soggiorno presso Bosone, conclude:
« Per esser dunque piü certi del fatto nostro e perché non
vogliamo affacciare una congettura troppo vaga, a conforto
della quale non esistono documenti di sorta (e quelli posti
in campo finora, se pure possono chiamarsi tali, abbiamo
spogliati d'ogni valore) neghiamo che Dante dimorasse a Gub-
bio e, fino a prova contraria, non crediamo che Bosone co-
noscesse l'Alighieri (1) ».

. Non c'è che dire, il metodo è radicale e sbrigativo, ma

. offre evidentemente il fianco a troppi attacchi: si potrebbe

obbiettare, ad esempio, che, se alcune affermazioni del Raf-
faelli oggi ci appaiono non confortate da prove, non è di-
mostrato che il Raffaelli non le possedesse e che poi siano
andate perdute; che il sonetto sopra ricordato già da qual-
che secolo non era considerato come documento importante
dalle persone competenti, dacchè la falsità di quel preteso
autografo era già avvertita dal Pelli e più tardi da Teodoro
Hell (2); che la tradizione avellanense ha sostenitori numerosi
ed autorevoli; che infine la vita di Dante ci è purtroppo
così poco nota e ci si presenta con tante lacune, che nulla.
è più logico e naturale dell’ ipotesi che il divino poeta, ap-
punto durante qualcuno di quei periodi, per noi avvolti nelle

.tenebre, abbia dimorato in Gubbio e a Fonte Avellana, di-

more delle quali sarebbe arrivata a noi la sola e debole eco
della tradizione. Poichè, questo crediamo sia pacifico, se non
a Gubbio e a Fonte Avellana, in qualche luogo Dante do-
vette pur passare quegli anni; e sembrerebbe più logico, se
non erro, propendere per quei luoghi che ci sono additati

(1) Op. cit., pag. 286.
(2) Il viaggio in Italia di Tronoro Herx sulle orme di Dante. Venezia,
Tip. di Tommaso Fontana, 1841, pag. 71.
BOSONE NOVELLO DE’ RAFFAELLI, ECC. 15

dalla tradizione, che non per altri che non conservano la
più piccola traccia di una dimora del divino poeta.

Ma anche senza queste considerazioni, la conclusione
del Mazzatinti, così com’ è, apparirà facilmente insostenibile.
Ognun sa che la tradizione, quando è verosimile e non è
contraddetta da alcun documento sicuro, ha quasi valore,
storico; e questo suo valore viene di gran lunga aumen-
tato, allorehé sia confortata da numerosi fatti e indizi an-
che se questi, presi separatamente, non costituiscano| prove
decisive. Ora questo appunto é il caso nostro. Per convin-
cerci di ciò basta porre il quesito, non, come fece il Maz-
zatinti, se Dante sia stato a Gubbio, ma se sia stato nel-
l'Umbria. Allargata cosi la questione esce da quelle strettoie
nelle quali era stata artificialmente rinserrata e le dimostra-
zioni del Mazzatinti, da lui a torto credute demolitrici, per-
dono senz'altro buona parte di quel qualsiasi valore che po-
tevano avere. Noi dunque dobbiamo domandarci: Ha Dante
peregrinato una o piü volte durante il suo esilio in quella
plaga dell'Italia centrale che é compresa tra il Catria, As-
sisi, Perugia e Umbertide (1)? Non risponderemo avventata-
mente un sì categorico, poiché sappiamo che fra i tanti ar-
gomenti che stanno per il sj, non uno solo finora ce n’ è
che possa considerarsi decisivo ; tuttavia crediamo di poter
affermare che ben più di novanta probabilità su cento stanno
per la tesi affermativa. Della qual cosa si convincerà facil-
mente chiunque, senza partito preso, esamini anche succin-
tamente l'insieme degli argomenti che stanno in favore della
tradizione.

La quale è molto antica, poiché se ne ha traccia a poco.
‘ più di un secolo dalla morte di Dante. Infatti nel codice
Laurenziano Pluteo, 42, 14 del 1482 sopra l'epitome della Di-
vina Commedia di Mino Aretino, erroneamente attribuita. a

(1) Vedi Note Letterarie di FrANCESCO GuarDpABASSI. Perugia, Unione-
Tipografica Cooperativa, 1912, pag. 115.
16 i A. ALUNNO

Bosone, come già rilevammo, si legge: « Expositio domini
Busonis de Eugubio super tribus libris Dantis, qui fuit tem-
pore suo, imo receptavit eum in proprio domo ». Che im-
porta se l'amanuense non è bene informato sull autore del-
l opera? Non poteva egli di certo inventare quella notizia
«di sana pianta e perciò la tradizione doveva esistere fin d'al-
lora.
Lo stesso sonetto

Tu che stanzi lo colle ombroso e fresco,

-che non é sicuramente di Dante, ma di qualche poetastro
del paese, ci prova che la tradizione continuava anche nei
primi del '500. L'originale infatti non solo porta in alto a
sinistra la data del 1508, ma ha nella grafia tutti i carat-
teri della scrittura della prima metà del '500.

Altra conferma l'àbbiamo nel '600, quando il conte Fal-
cucci di Gubbio, avendo comprato il palazzo che credeva
dei Raffaelli, vi fece apporre esternamente la seguente iscri-
zione: HIC. MANSIT. DANTHES | ALEGHERIUS. POETA | ET.
CARMINA. SCRIPSIT | FEDERICUS. FALCUTIUS | VIRTUTI ET. PO-
STERIBVS. P(OSUIT). Forse il Falcucci sarebbe stato più one-
Sto se avesse adoperato un dicitur, come aveva già fatto il
P. Rodolfi per Fonte Avellana, ma ciò non toglie che questa
iscrizione confermi la tradizione.

Nel ’700 poi, come già dicemmo, questa notizia e molte
altre, venute alle mani del Raffaelli, gli fornirono la materia
per il libro ricordato e tutti gli altri, che trattarono in se-
guito questo argomento, attinsero da lui.

Dunque la tradizione della dimora di Dante in Gubbio
è molto antica e mai interrotta.

Passiamo ora a un altro ordine di argomenti. La più
‘antica notizia biografica di Dante è contenuta in un’ opera
latina, inedita, mista di prose e versi, intitolata De Teleute- Me; 7 ior m n?

BOSONE NOVELLO DE’ RAFFAELLI, ECC. 17

logio (1) ('autografo si conserva, pare, in un codice della bi-
blioteca di S. Marco, Lat. VI, n. 167) di Ubaldo di Seba-
stiano da Gubbio, scritta fra il 1396 e ’27. « Dantem Ala-
gherii — dice la morte all'autore — vestri temporis poetam,
florentinum civem, tuae a teneris annis adolescentiae praecepto-
rem, inter humana ingenia naturae dotibus coruscantem et om-
niwm morum habitibus rutilantem, (luxuria) adulterinis ample-
«pibus venenavit ». Pare che si debba ormai scartare l’ ipotesi
che Ubaldo non voglia alludere ad un vero e proprio inse-
gnamento, ma all'amore col quale studiò le opere di Dante
fin da giovinetto. Ma in qual luogo Dante avrà insegnato ad
Ubaldo ?.— In Bologna, — rispondono i più — dove si sa che
l’eugubino studiò» e insegnò per un certo tempo. Sta bene,
ma questa è una semplice ipotesi, la quale non sta contro
l'altra che l'insegnamento, almeno in parte, e precisamente
quando Ubaldo era ancor giovinetto, possa avere avuto luogo
anche in Gubbio. Intanto si sa, senza stare a ricordare Ode-
risi, che Dante fu in relazione con un eugubino e verosi-
milmente anche con.la di lui famiglia.

Valore ben più grande ha per la nostra tesi il fatto che
Dante nel De Vulgari eloquentia mostra di possedere una
larga conoscenza dei dialetti di tutta la zona centrale umbra
e — cosa per noi di capitale importanza — nel libro I,
cap. I1 nomina espressamente gli abitanti della Fratta, la
moderna Umbertide, con la parola Fratenses. Se non che i
‘critici hanno sostituito al Fratenses dei manoscritti la parola
Pratenses, come più probabile, ed io confesso di non esser
mai riuscito a capire in base a quali criteri si sia giunti a
questa sostituzione. Non per meschino spirito campanilistico,
ma per tre ragioni principali, io ritengo di gran lunga più
probabile la lezione Zratenses. Anzi tutto perchè cosi sta
. Scritto nel manoscritti; in secondo luogo perché in tutta

(1) Vedi su quest'opera lo studio del MazzammwmTt: Teleutelogio di Ubaldo
di Sebastiano da Gubbio, opera inedita del sec. XIV. Firenze, Cellini, 1881.

2
18 A. ALUNNO

l'Alta Valle del Tevere, nella quale si trova appunto Um-
bertide, si parla un dialetto che differisce fortemente da
quelli delle altre plaghe della regione e perciò Dante do-
veva avere un particolare interesse a menzionarlo a parte. Per
ultimo perchè Prato dista da Firenze appena 18 chilometri ed
il suo dialetto differisce ben poco dal fiorentino, onde il farne
menzione apparirebbe piuttosto superfluo. Ma se così è, come
io credo, Dante dovette peregrinare per alcun tempo in
questa nostra regione, altrimenti non avrebbe potuto cono-
scere questi particolari.

E questa opinione è anche avvalorata dalle parole del
Convivio (1): « Per le parti quasi tutte alle quali questa lin-
gua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, ecc. ».
Ora, se Dante visitó quasi tutte le parti d'Italia, è verosi-
mile ch’ egli trascurasse proprio l’ Umbria, tanto vicina alla
Toscana e nella quale si grande somma di ragioni affettive,
intellettuali e politiche lo chiamavano ?

D'altra parte anche il Boccaccio, che pure è cosi parco
di notizie, ci dice vagamente che Dante si soffermasse ne'
monti vicino ad Urbino presso i signori della Faggiola e i
monti vicino ad Urbino non sono invero molto lontani dal
Catria e da Gubbio.

Né per le relazioni che poterono correre fra Dante e
Bosone va trascurato il sonetto che questi in morte del di-
vino poeta indirizzò all'amico Emanuele Giudeo. In esso non

è la fredda parola di un qualsiasi ammiratore, ma vibra in

tutta la piena della passione e del dolore l'accorato, l'affet-
tuoso, il devoto rimpianto di chi ha perduto per sempre l'a-
mico più grande e più caro. Basta leggerlo per convincer-
sene. 1

: Ma l' argomento più forte che sta a sostegno della no-
stra tesi risiede nelle descrizioni che di alcuni luoghi della
regione sopra indicata Dante ci ha lasciato nella Divina Com-

(1) Trattato I, cap. III. BOSONE NOVELLO DE’ RAFFAELLI, ECC. 19

media. I particolari di queste concise descrizioni sono così
precisi e così ben determinati che si possono rilevare sol-
tanto per avarli veduti. Non sarà inutile qui rievocarli. Così
sono descritti il Catria e Fonte Avellana per bocca di S. Pier
Damiano (Par., XXI):

Tra duo liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti alla tua patria,
tanto che i tuoni assai suonan più bassi;
e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al qual fu consacrato un ermo,
che suol esser disposto a vera latria.

Il poeta qui non solo ha descritto con verità e precisione
indiscutibili, ma ha avuto anche agio di osservare che quei
monaci non seguivano più la regola austera di S. Benedetto,
onde S. Pier Damiano continua sdegnato e in tono di profe-
tica minaccia :

Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente, ed ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.

Osservazione questa che acquista speciale importanza,
quando si tenga presente che Dante, se si scagliò spesso contro
gli ecclesiastici in genere e contro monaci e frati in particolare,
soltanto alla vita degli Avellaniti accenna in un modo così
specifico e determinato, e perciò è da concludere che egli
doveva aver conosciuto di persona la vita e i costumi di
quei monaci, contro i quali, sempre libero e giusto, non e-
sita a scagliare la sua severa rampogna, nonostante la cor-
tese ospitalità ivi ricevuta — come vuole la tradizione —
da frate Moricone e da’ suoi dipendenti. La qual cosa po-
20 A. ALUNNO

trebbe spiegarci la ragione per cui quei monaci non si af
frettarono a consacrare in una lapide la visita fatta al loro
monastero dal sommo poeta. È noto che la tradizioue fu fer-
mata nel marmo soltanto nel 1557 dal fiorentino Filippo Ro-
dolfi, capitato a Fonte Avellana per cagione della sua carica
di Abate Commendatario (1).

Nè si dica che -questa tradizione ha scarso valore per
essere stata tanto tardi fissata nel marmo: oltre alla causa
sopra esposta, cui verosimilmente si deve il ritardo, non va
dimenticato che in un monastero la tradizione ha importanza
tutt'affatto speciale, poichè ivi i giovani apprendono inin-
terrottamente dalla viva voce dei vecchi ciò che si riferisce
al passato; e in proposito è opportuno rammentare che nel
1557 viveva ed era sanissimo di mente, — com’ era perfino
diciassette anni dopo, quando morì — un avvellanita che
aveva allora centotre anni di età, D. Cristoforo da Costac-
‘ciaro, il quale doveva avere appreso da quelli che aveva
trovato nel monastero entrandovi ciò che in proposito vi era
ricordato appena un secolo dopo la morte del Poeta. È poi
anche da rilevare che la camera di Dante si insinua nel
bell’andito fatto costruire dal cardinale Giulio Della Rovere,
in modo da deturparlo ; e la mancata sistemazione di quella
parte soltanto dell’ edificio non si spiega altro che col ri-
spetto avuto alla camera del Poeta; per cui la tradizione
doveva esistere anche allora.

(1) L'iscrizione dice: Hocce cubiculum hospes | in quo Dantes Aligherius
habitasse | in eoque non minimam, praeclari ac | pene divini operis sui partem
com | posuisse dicitur undique fatiscens | ac tantum non solo aequatum | Philippus
Rodulphius | Laurentii Nicolai cardinalis | amplissimi fratris filius summus | col-
legii praeses pro eximia erga | civem suum pietate refici hancque | illius. effigiem
ad tanti viri memo | riam. revocandam Antonio Petreio | canon. floren. procu-
rante | collocari mandavit | Kal. Mai M.D.LVII. I monaci poi vi aggiunsero:
Cam. Monaci re verius cognita | Hoc în loc. ab ipsis restaurato posuerunt | Kal.
Nov. MDCXXII. usci +79 4c
C 2 H

B.

marco

BOSONE NOVELLO DE’ RAFFAELLI, ECC. 21

Ed ora passiamo ad Assisi e Perugia (Par. XI):

Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo
fertile costa d’alto monte pende,

onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole, e dirietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di quella costa, là dov'ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un Sole,
come fa questo talvolta di Gange.

Però chi d’esso loco fa parole
non dica Ascesi, chè direbbe corto,
ma Oriente, se proprio dir vuole.

Assisi così come Dante l'ha vista e descritta, in una vi-
sione esatta, grandiosa e completa della regione che la cir-
conda, non può essere ammirata che da Perugia, onde propen-
diamo fortemente a credere che Dante fu in questa città.‘

Ipotesi questa confortata anche dalle acute osservazioni
fatte in merito dall'illustre. prof. on. Pietro Fedele nel lavoro

. . Per la storia dell'attentato di Anagni (1). Dopo avere messo
a confronto e rilevata la corrispondenza fra alcune frasi
pronunciate da Benedetto XI nel discorso tenuto in Perugia
il 7 giugno 1304 e i versi di Dante contro Filippo il Bello,
e dopo essersi domandato se l'Alighieri fosse per avventura
fra gli ascoltatori, il Fedele scrive: « Come è noto, il pe-
riodo piü oscuro della vita di Dante é forse quello che
corre dalla sua partenza da Verona, ove era stato accolto
dalla cortesia del gran Lombardo, Bartolomeo della Scala
che tenne la signoria veronese dal settembre 1301 al marzo
del 1304, fino al suo rifugiarsi presso la corte dei Malaspina
nella Lunigiana ». E nulla vieta di pensare che, nella sua
vita errabonda, Dante si sia recato a Perugia, dalla quale

(1) Bull. dell’Istit. stor. ital., N. 41. Roma, 1921.
R — fX B Cu MER. — — - = ES ken Uan steli gen a

22 A. ALUNNO

Benedetto XI si affaticava a metter pace nella tormentata
Firenze. Ai primi del marzo del 1304 in Firenze giungeva
per l ardua impresa della pacificazione il cardinale Niccolò
da Prato, inviatovi dal Pontefice. « E parea che la pace pia-
cesse a ognuno », e nel calendimaggio furono rinnovate le al-
legrezze e le feste « come al buon tempo passato del tran-
quillo e buono stato di Firenze ». Poi gli avvenimenti preci-
pitarono al peggio ... Ai primi di giugno il cardinale Niccolò
« quasi in fuga » si recava a Siena, lasciando Firenze « con
la maledizione di Dio e con quella di santa Chiesa >».

Ora che Dante in questo periodo, il più triste, il più po-
vero della vita che egli forse andava mendicando a frusto a
frusto, seguisse con tremenda ansietà le vicende fiorentine
e le trattative per la pace, la quale, conchiusa, lo avrebbe
ricondotto nel seno di Firenze, chi vorrà dubitare? E da
qual luogo meglio che da Perugia, seguire e forse secondare
l’opera di pace del Pontefice ? ».

Ma, tornando alla descrizione di Assisi, giova notare che
Dante in essa fa parola della sorgente del Chiascio. Ora da
Perugia o da altro luogo dei dintorni non sarebbe stato as:
solutamente possibile avvertire che le acque del Chiascio
hanno la loro fonte nel colle eletto del beato Ubaldo. — Avrà
avuto qualche informatore del luogo — ci si potrebbe ob-
biettare. Ebbene, questo particolare della sorgente del Chia-
scio è così poco noto anche oggi, pur dopo essere stato
eternato nei secoli dal verso dantesco, che è conosciuto da
pochissimi fra gli stessi Eugubini; perciò non è da credere
che Dante avesse a sua disposizione un così raro cicerone.
Forse lo stesso Mazzatinti, che in Gubbio sorti i natali e che
vi dimorò per varii anni, non conosceva esattamente la sor-
gente di questo piccolo fiume; lo si può arguire dall aver
egli trascurato affatto questo particolare di tanta importanza
nella questione dantesca. Il Chiascio dunque nasce dal monte
di S. Ubaldo e precisamente nella parte opposta alla città,
scendendo per il versante nel quale trovasi Colmollaro, l’an-

cli La > 7 da

BOSONE NOVELLO DE' RAFFAELLI, ECC. 23

tico castello di Bosone ; ivi dimorando Dante per alcun tempo
— come vuole la tradizione — potè forse apprendere la pe-
regrina notizia.

Molto ancora si è discusso e nulla di preciso si è però
concluso intorno al personaggio cui il Petrarca indirizzò la
celebre canzone.

Spirto gentil, che quelle membra reggi.

Scartata l’ipotesi che si tratti di un personaggio imma-
ginario, ci domandiamo: È Cola di Rienzo o Bosone da Gub-
bio? O non piuttosto Stefano Colonna, il vecchio, o Stefa-
nuccio Colonna, od altro patrizio chiamato alla suprema ca-
rica di senatore di Roma? Chè queste sono le ipotesi venti-
late dai critici, fatta eccezione per il Mazzatinti, il quale nel
suo studio non accenna affatto alla questione.

Noi non staremo qui ad esporre le opinioni e le argo:
mentazioni avanzate in merito dai singoli studiosi (1), chè
sarebbe troppo lungo e forse anche inutile; ma ci limite-
remo a riesaminare oggettivamente la questione con brevità
e chiarezza ed a trarre quindi la nostra conclusione. In que-
sto esame prenderemo a nostra guida l’unica persona che
può essere in grado di darci sull’argomento informazioni si-
cure, e cioè il poeta stesso.

Il Petrarca, se non fa il nome del suo eroe, ci fornisce
però su di lui alcuni dati sicuri e perciò preziosi: lo chiama
prima di tutto « spirto gentil », frase questa che è dal Pe-
trarca usata sempre ed unicamente per indicare o donne o

(1) Furono tante le dispute in proposito che poco più furono quelle
intorno al Veltro dantesco. Più particolarmente ne trattarono Zerririmo RE
e il PaPENcoRDT, coi quali però non concordiamo nella conclusione.

pre na

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24 i A. ALUNNO

poeti o letterati o spiriti contemplativi; perciò il principio
della canzone — avverte acutamente il Pieretti (1) — deve
essere interpetrato nel senso che l'uomo a cui si rivolge il
Petrarca é consacrato alle umane lettere e alla poesia e nel
medesimo tempo è anche un signor valoroso, accorto e saggio,
un uomo cioé atto a reggere una città ed un popolo ; in se-
condo luogo è da poco tempo giunto a l'onorata verga, e cioè,
quando il poeta scrisse la canzone, era stato da poco tempo
eletto senatore di Roma; egli in terzo luogo dovrà, nell’ in-
tenzione del poeta, porre fine al lungo odio civil, dovrà cioè
ridonare pace e tranquillità a Roma, insanguinata dalle lotte
che per sete di dominio e di ambizione scatenavano inces-
santemente le potenti famiglie della superba aristocrazia ro-
mana; in ultimo è uno che il poeta non vide ancor da presso,
.e cioè uno che il Petrarca non conosceva personalmente,
che non aveva mai veduto e del quale s' era innamorato sol-
tanto per quello che la fama diceva di lui. Più brevemente:

x

è un neosenatore che è anche poeta, che non è stato mai

veduto dal Petrarca e che è da lui stimato adatto e capace.

a pacificare Roma.

Ciò premesso, ritorniamo ai pretendenti alla canzone e
vediamo a chi si convengano pienamento le poche indica-
zioni dal poeta stesso forniteci, indicazioni che noi sotto ogni
riguardo dobbiamo ritenere rigorosamente esatte.

Stefano Colonna dobbiamo eliminarlo subito per la sem-
plice ragione che non gli si conviene nemmeno una delle in-
dicazioni date dal poeta. Egli infatti non fu nè poeta, ne let-
terato; fu più volte senatore, ma anteriormente al tempo in
cui il Petrarca visitó Roma per la prima volta e scrisse la
canzone; aveva conosciuto personalmente il poeta in Avi-
gnone nel 1331 e lo aveva riveduto in Roma nel 1337 e nel
1343, come si rileva da una lettera del poeta medesimo che

(1) Lrcunao PrenETTI, Nuova interpretazione di alcuni passi oscuri del Pe-

trarca. Ariano, 1889, pag. 8 e sgg. A
Si
2
A
4

BOSONE NOVELLO DE’ RAFFAELLI, ECC. 25

porta la data dì quest’ ultimo anno (1); infine osservo che
non il membro di una delle potenti famiglie romane, la cui
sfrenata sete di ricchezza e di impero era appunto la causa
prima di quelle lotte intestine, poteva apparire al Petrarca
il più adatto a riportar la pace nell’ eterna città.

Le ragioni portate contro il vecchio Stefano stanno in
genere anche contro coloro che tennero l'alta carica di se-
natore dal 1338 al '47. Restano dunque Cola di Rienzo e Bo-
sone da Gubbio.

A Cola forse converrebbe la frase spirto gentil, perchè, se
non scrisse poesie, fu però persona colta e praticamente
poeta nel suo fantastico sogno di far rinascere Roma alla
sua antica grandezza; a lui inoltre poteva convenire il

difficile compito di pacificare la martoriata città, come colui.

che non da una delle fazioni contendenti, ma dal popolo
traeva le sue origini. Un dato di fatto sicuro peró fa cadere
inesorabilmente tutte le probabilità che potrebbero militare
in suo favore. Dice infatti il poeta nel commiato :

Sopra '] monte Tarpeio, canzon, vedrai
un cavalier ch'Italia tutta onora,
pensoso più d’altrui che di se stesso.
Digli: « Un che non ti vide ancor da presso,
se non come per fama uom s’innamora, ecc.

Il Petrarca dunque non conosceva personalmente il suo
eroe, quando questi fu nominato senatore o tribuno. Ma Cola
fu eletto tribuno nel 1347 e il poeta stesso ci narra in una
sua lettera che, quando nel '43 Cola fu mandato dai Tredici
oratore a Clemente VII in Avignone, non solo lo vide e strinse
con lui amicizia, ma tanto gli piacque la immaginosa elo-
quenza del giovane romano, che lo prese ad ammirare senza
misura, chiamando i suoi discorsi « gravissimi e santi, come

(1) Famil., V, Ep. III al cardinale Giovanni Colonna.

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26 A. ALUNNO

usciti dai sacri penetrali di un oracolo », dettati « da un
Dio piuttosto che da un uomo » (1); e con lui si intratteneva
in lunghi colloqui nelle passeggiate e perfino sulle porte delle

‘chiese. E il poeta stesso dunque — si noti bene — che nella

lettera ci dice chiaramente che conosceva Cola prima che
fosse capo di Roma e che altrettanto chiaramente ci dice
nella canzone che non conosceva il suo eroe quando questi
fu eletto senatore o tribuno; è il poeta stesso in altre parole
che ci dice in modo non equivoco che il personaggio della
canzone non é Cola. E noi, poiché lo riteniamo informato in
proposito un po' meglio di tutti i critici nasuti, ce ne stiamo
una volta per sempre alla sua parola. |

Resta Bosone. A lui si conviene appieno la frase spírto
gentil, poichè, come abbiamo veduto, oltre ad essere uomo

di governo, fu anche letterato e poeta; a lui conveniva l’in-

carico di pacificare la città, per essere non romano e perciò
estraneo alle competizioni delle fazioni; egli inoltre fu no-

minato senatore nell’ottobre del 1337, poco tempo dopo che

il Petrarca. aveva visitata per la prima volta l’ eterna città,
e precisamente nel periodo di tempo in cui più viva e pro-
fonda era l'impressione che le ruinanti reliquie dell’ antica
Roma dovevano aver lasciata nella sua alta fantasia; infine
nessun documento e nessuna tradizione accenna al fatto che
il Petrarca abbia mai conosciuto personalmente Bosone; al
quale pertanto convengono mirabilmente tutte le indicazioni
con le quali il Poeta ha voluto farci conoscere il suo eroe.

Quando a tutto ciò si aggiunga che molti e autorevoli
codici la riportano con a capo l'intestazione a Bosone, non
vedo come si possa ancora logicamente sostenere Tae a lui
in realtà il Petrarca non l'abbia indirizzata.

*
*# *

Prima di chiudere il presente studio credo opportuno

«dire due parole anche intorno a L’Avventuroso Ciciliano.

(1) Famil., VII, 7.
BOSONE NOVELLO DE’ RAFFAELLI, ECC. 27

Più a lungo e più accuratamente che non delle poesie
se ne occupò il Mazzatinti nello studio ricordato ed è dove-
roso riconoscere che in questa seconda parte pervenne a con-
clusioni acute e piene di buon senso.

Si conserva in un codice della Laurenziana (Pluteo,
inf. LXXXIX, n. 60); di esso si servi G. F. Nott per pub-
blicarlo: per la prima volta. Porta la data del 1311, ma né
il libro fu scritto realmente in quell’anno, poichè in esso si
trovano, per tacere del resto, un’orazione attribuita a Dino
Compagni, che la recitò a papa Giovanni XXII nel 1316, ed
una lettera di re Roberto scritta ai Fiorentini nel 1333; né
quell’esemplare è l'autografo dell'autore, la qual cosa è di-
mostrata dai molti errori che ivi si riscontrano e nei quali
certamente non sarebbe incorso Bosone, come nomi storpiati,
passi mancanti di aleune parole, irregolarità di ortografia,
contraddizioni, ripetizioni, anacronismi, ecc.... Ma sopra tutto
è importante il fatto che numerose volte l’autore parla di sè
in terza persona; così, per esempio, si legge a pagina 19:
« L'Autore soggiunge in questa parte l'autorità ... » ; a pag. 21:
« Qui non dichiara l’autore ... »; a pag. 25: « Qui V Autore
pone ... »; a pag. 136: « E qui l’autore più non iscrive, pe-
rocchè la materia ... ». Per tutto ciò è legittimo domandarsi:
E' veramente l'autore che parla di sè in terza persona o non
si tratta piuttosto di un raffazzonatore e abbreviatore del
libro di Bosone? Tutto induce a ritenere di gran lunga piü
probabile la seconda che non la prima ipotesi; onde L’ Av-
venturoso Ciciliano, come lo possediamo nel codice Lauren-
ziano, non sarebbe l’opera originale di Bosone, ma il raffaz-
zonamento che su di essa, andata perduta, avrebbe fatto un
inesperto sconosciuto.

Chieti, dicembre 1924.

AURELIO ALUNNO.

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20

A. ALUNNO

Poesie di Bosone Novello de’ Raffaelli

Capitolo in terza rima sulla Divina Commedia (Ty:

Perp che sia piü frutto e piü diletto
a quei che si dilettan di sapere
dell’alta Commedia vero intelletto ;

intendo in questi versi proferire
quel ehe si voglia intender per li nomi
di quei che fan la dritta via vedere

di questo autor, ch'e' gloriosi pomi
volse cercar e gustar sì vivendo
che sapesse de' morti tutti i domi.

Dieo che anni trentaeinque avendo
l'autor, ehe son nel mezzo dei settanta,
dai quali in su si vive poi languendo ;

stando nel mondo, ove ciascuna pianta
sì di cogitazioni e di rancura
l’appetito vagante nostro pianta,

vedea della virtù l’alzante altura
e desiava di salire in cima,
chè discernea già il bel della pianura.

E, così volto, innanzi ’i venne prima
quella leonza che per lo diletto
e per la creazion buona si stima.

E poi, perchè ’1 saver non lassa il petto
ben conducer lo freno, il leon fue
la superbia che offusca ogni intelletto.

Quella lupa, che, avendo, ognor vuol piùe,
fu l'avarizia che per mantenere
uom la sua facoltà fa giacer giùe.

prima, vol. III, Firenze, 1867.

(1) Tratto dalla Biblioteca dei classici, collezione Mazzini e Gaston, serie
-—.

30

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50

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‘60

65

puerta > Mery parente

BOSONE NOVELLO DE’ RAFFAELLI. ECC.

Queste fur le tre bestie che ’1 volere
gli fecer pervenir d’andare al monte,
dove virtù se ne solea sedere.

Ma, perchè l’alma, che si prende al fonte

del nostro battistèo, ci dà un lume,

el qual ci fa le cose di Dio conte,
venne dal lustro del supremo lume

una grazia di fede, che si dice

che infonde l’alma come terra il fiume,
e mosse lui con la ragion felice

per fargli ben conoscer quelle fere;

in che ci allegoreggia Beatrice.
E la ragion, per cui da lor non père,

descrive per Virgilio e vuol mostrare

‘ch’ebbe da’ libri suoi molto sapere.

Questi gli mostra come per mal fare
si dee ricever pena e poi agguaglia

la pena al mal, come me’ può adequare.

E perchè '] magistero più gli vaglia
la ragion, ‘se ragion si può chiarire,
mostra come la spada infernal taglia:

e questo mostra per voler partire
non pur lui da peccato e da far male
ma farne all’uditor crescer desire;

sicchè ’1 buon viver nostro naturale
non erri e, se pur erra, che si saccia
e pentere e doler quanto ci vale.

In questo la sentenza par che giaccia
di questa prima parte, che l’Inferno
par che comunemente dir si faccia.

Poi la seconda parte del quaterno,
tuttochè la ragione ancor lo mena,
siccome fece per lo foco eterno,

Caton lo ’nvia per la gloriosa pena
che purga quegli spirti che pentuti
diventan, pria che sia l’ultima cena;

e, perchè i lor voler sien ben acuti
e liberi di far ciò che lor piace,
vuol eh'uom per libertà vita rifiuti;

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A. ALUNNO

in questo il nome di quel canto giace,
mostrando eome uom dee fuggir lentezza
e tardanza d'aver con l’alma pace.

Poscia descrive con bella fortezza
di poetria come un’aquila venne
nel pensier suo della divina altezza:

e questa è quella grazia che pervenne
come il divin volere in lui la ’nfonde,
che di lei e d’un segno si sovvenne.

Ella ci scalda e non eonoseemo onde,
se non che noi rischiara un poco stante
una donna gentil colle sue onde;

e questa è quella grazia che è giovante,
la qual descrive in nome di Lucia,
che ’i fe colla ragion veder sì avante.

Chè ben conobbe come si salia
su per li gradi della penitenza
e come il prete su in essi sedia;

e fa tra essi quella differenza
di eolor, di fortezza e di virtute
che descrive la chiesa e la credenza.

Poi mostra come per aver salute
si vuol tre volte percuoter lo petto
con non voltarsi alle cose vedute;

chè per tre modi corre uom nel difetto
di far peccato: o per superba vita,

o per aver degli occhi mal diletto,

‘0 per aver la carne troppo trita;
e quinci vengon li sette peccati
che fa d’ognun la spada sua ferita.

Non vuol avere i vestimenti ornati
lo sacerdote, ma umilemente
oda i difetti che gli son mostrati;

e ’n le due chiavi, che tenea latente,
mostra l’autorità e discrizione
che l’una toglie e l’altra ha nella mente.

Faccia lo diocesan comparazione
fra prete e prete e non dia capomanno,
se non gli avviene quel di Salomone.

tegame vio)
BOSONE NOVELLO DE’ RAFFAELLI, ECO. 31

Poi vede 'ehiar come pentuti stanno
e purgati ciascun del suo mal fare
e per lo suo contrario la pena hanno.
Ma, perchè io voglio alquanto dimostrare
110 una bella figura che vi mette, . (
rieolgan gli uditori il mio parlare.

Perche ei sien le virtü piü dilette
e i vizi più ci sieno abominati,
dinanzi al bel purgar ciascun de’ sette

115 mostra come gli par veder davanti
(qual seolpito, quale udia, qual vedea
e qual sognando e qual parea per canti)
molte novelle di cui si sapea
ch’ebber l’ornata eccellenza del mondo,
120 perchè ’1 contrario di quel vizio fea.

E questo mette prima che nel fondo
salga dal grembo per forza, che faccia
correre altrui nell'opera giocondo ;

poscia di retro descrive la traccia

185 di quei che per quel vizio rovinaro,
e questo infrena altrui, come quel caccia.

E, perchè Stazio fu fedele e caro,
diee che i libri suoi con la ragione
la via d’esto cammin gli dimostraro.

130 In sommità di questo monte pone
quel luogo, ove si crede che Adamo
vivesse e fesse poi l’offensione.

E per lo ben che vien di ramo in ramo,
lodando il luogo, di fuor della riva,

135 sedeva lamentando alcun richiamo.

Poi lì da alto della selva diva,
sol con quell’atto che l’effetto importa,
vede allegra seder la vita attiva!

E lì dinanzi dalla prima scorta

140 fu lasciato egli, peroeché la fede
la ragion mostrativa non comporta.

Lo fondamento d'essa oggimai vede :.
li sette don dello Spirito Santo
eran quel lume che ’nnanzi procede;

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A. ALUNNO

e i ventiquattro ehe facean quel canto
i libri della Bibbia erano, quelli
che hanno mo di chiarezza eiaseun manto;
e 1 quattro che avieno ali più che uccelli
eran gli Evangelista, che mostraro
l'esser di Dio da pie’ fino a capelli.
Cristo era quel grifon che vedea chiaro,
che menava la Chiesa santa dietro,
chè le sue carni Dio ed uom portaro;
e le tre donne che scrive ’1 suo metro
eran quelle teologiche perfette,
che non si veggion che per divin vetro;
l'altre eran quattro cardinai dilette,
che n'andavano a modo di prudenza

‘ eh'é nei tre tempi, come l’autor mette.

Li due che medicàr la nostra essenza
fur Paolo e Luca e gli altri quattro fóro
quei che epistole far ebber potenza;

e ’1 vecchio ch'era dietro a tutti loro
fu Moisè. E così ci descrive
e méttene per questo stretto foro.

Poi dice appresso perchè mal si vive
per gli pastor di quella navicella,
come l’opere lor furon lascive.

E quella volpe, di cui ci favella,
fu Maometto, che diede un gran crollo
al carro, come conta la novella.

Poseia lo impero per aquila póllo
e serive come il bell'arbor del mondo -
per dare al papa si fece un rampollo.

Mette poi Eunoé che mostra il fondo,
per la chiarezza sua, di questa fede;

e quinci uscì per gire al ciel rotondo.

Quivi la gloria di Dio tutto vede,
come la Teologia lo vi conduce,
per pagamento di quel che si erede.

Qui mostra come la luna riluce
fin di sopra Saturno tutt'i^cieli,
che ben guardando chiaramente induce.
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BOSONE NOVELLO DE' RAFFAELLI, ECC.

E poi il sito da molti candeli
gli fu mostrato e poi la somma altezza;
poi della Trinità par che riveli
ciò che se ne può scriver per chiarezza
e ciò che lo intelletto ne comprende.
E qui fa del suo libro la fermezza.
Adunque noti chi ben lui intende,
che speculando queste cose vede;
e così tutto il dicer suo si prende,
fortificando la cristiana fede.

Capitolo in terza rima

sulla guerra dei Cristiani contro i Turchi (1).

Spirito Santo, che dal ciel descendi,
scaldando el cor de la beata croce,
e violentemente el rapi e prendi,

come puoft'esser ch'al suono d'una boce
le gente cristiane tutte quante
si faccian d'un andar tanto veloce,

che, la terra calcando con le piante,
e l’acqua poi fendendo con le navi,
e l’aer con l’anelito spirante,

e gli effetti del fuoco tanto gravi
non temendo, nè ferri, nè la morte,
nè la ferocità dei Turchi e pravi,

ma ciascun col voler costante e forte,
lasciando ’1 padre, i figliuoli e nepoti,
e la mogliera, l’amico e '1 consorte,

e fanti noti de cui non son noti,
po’ i magiure di terre e de’ castelli,
possessioni e luochi a lor divoti

lasciano e portan sol che basti ad elli,
e non domandan de la via riscosa,
nè di tempesta che fonda vascelli,

codice Barberino XLV-130.

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A. ALUNNO

che soglion far la gente paurosa,

| ma, cantando e mostrando quel diletto

e quella vigoria letiziosa

che s'eglie avesse vento Macometto,
o si fosser tornate a casa loro,
come desian tornar senza difetto?

A me, che intendo di questo lavoro,
Spirito, dire alquanti versi,
dàmmi grazia, che sia del tuo tesoro,

e non guardare a i miei peccati aversi;

ma fa di me come fai de lo spino,
ehe sono i fiore a le spine diversi.

E s'egli aven ch'io dica con latino,
che sia piacer de gli audienti, forse
troppo più gente prenderà il camino ;

chè tu sai bene che Moisè soccorse
colle parole al popol desviato
e tutto del concetto primo el torse.

Ora comincio col segno beato
e dico che nell’anno di Dio mille
trecento sette, poi che fu chiamato,

surser di guerra picciole faville
tra l’isola di Rode e di Turchia,
robando legne e tentando le ville;

ben ch’entra lor usasser mercanzia
ciascuno stava pur coll’arco teso,
sentendo, dico, alquanto de resia.

Poi cresce tanto quisto foco ‘acceso,
che non vogava legno veneziano
da Nigroponte che non fosse preso

e menato davante a Morbasciano
e ciascun morto con sì fatto strazio
che per vergogna taccio e non lo spiano.

Ma poi en tempo de picciolo espazio
sì grande uccision de Cristian fèrno,
che anco se n’ novella del disfazio.

Li Venezian sul cominciar del verno
portàr lo grido puoi fin a Vignone
et ogni cosa fu messa in quaterno.

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BOSONE NOVELLO DE' RAFFAELLI, ECC.

E quivi naeque aleuna questione,
dicendo: « Non svegliam lo can che dorme,
ché potrem pegiorar là condizione;

ché quella plaga é pur de gente enorme
e d'infedeli e di Macometane
e di persone assai da noi difforme.

Temesse che non faccian come cane
che l’un soccorre l’altro quando dorme
e fansi presso ben che sien lontane.

E se le voglie lor siran concorde
troppo averem che far, considerando
a quante cetre artiraran le corde.

Perchè più che sei mese caminando
trov' el gran Cane, signor del Catai,
dove si porta lor, mai non tornando.

Se da traverso d'altra banda vai,
trovi lo Sbech, el signor del Deli,
che lor.poter qua non si seppe mai.

E non cognoscon quel che disse Eli
poi né l' imperador de Trepezonda,
che sealla a quil che vol passar de li.

Se del Soldan, che di potere abonda,
dir si volesse, el parlar verria meno,
sì par che pur l'udir altrui confonda.

Se dietro torne e pense del veleno
di Persia, di Sirìa e de la Tana
e de gli altre, ch’ al viver non han freno,

meglio è tacer che dir, .ch'en mente sana
genera el pensier confusione,
sì è infinita quilla gente vana ».
Poscia ch’ebbe eschiarato suo sermone,
el Papa tenne un altro concestoro
de tutti chierci ch'erano a Vignone.
Et in concordia tutti quanti fuoro
che el Patriarca e Martin Zaccaria
e Piero Zeno fusse capo con loro.
Dello Spedale el mastro se dicia
de servir con galee assai armate
e cosi mosser subito la via.

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A. ALUNNO

Andarvi et ebber di male derrate:
fuoro in Erode e le Smirre occuparo,
dove il glie avie molte gente asembrate.

Nel dì de Santo Antonio se n’andaro;
el Patriarca volea dir la messa,

di fuor non providendo de riparo.

Li Turchi con lor gente dura e spessa
v'andaro addosso et ucciseli tutti,
sì eh'allor fu ogni cosa demessa.

Della novella a Vignon fuor gran lutti;
quivi pensaro di mandar riparo
col eor doglioso e con gli oechie non sciutti.

Troppo si vuol più dolce a tanto amaro,
però comincio e scùsime ‘1 dir vero,
et abbial pur, chi vol, molesto o caro.

Faccia il Papa unito con l’Impero
e pona giù la virtù de la lancia,
usi le chiavi che lasciò San Piero;

et impona silenzio al Re di Francia,
sì che se pose col Re d'Inghilterra,
chè non è cosa da mettere in ciancia.

E la Trinacria, che mantien la guerra
col giovene che venne d’Ungaria,
posin tra loro e terminin la terra.

Intendano a l’ofese de Turchia
che ci sirà che fare a la difesa
tra barbari in Cretì e Romania.

Lo Re di Spagna, ch’ha la voglia accesa,
poi ch’ebe la zinzera, incontro ’i movi,
intenda al Re di Garbo far l’ofesa.

Quil d'Ungaria, ben che luntan dimori,
ha pur de l’infedel d’intorno intorno;
collo Boemo costante se "neori.

In Cipri a Greci et anglar mi ritorno,
che de la fede sollezzan con noi,
pria che la sete sia, suone lo corno.

Ora mi volglio; Santo Padre, a voi
e dico che l’offesa di Raona
coll’altro Re poniate a miglior loi;

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BOSONE NOVELLO DE’ RAFFAELLI, ECC.

perchè per l’universo si ragiona
che se può fare el ben per modo tale
che se calunia per ogni persona.

Mettete el freno en quil de lo Spedale
e la moneta che suona nascosta
passe vogando el mare e batta l’ale.

Non è cara la cosa, se non costa,

e, se la nostra moneta non basta,
ai chierce ricche ponete l'imposta.

Chè troppo è meglio ch’entrare a la guasta;
forse scemarà la furia loro, |
ehe spessamente l'abondanza adasta.

Poi quattro o sei del nostro concestoro,
eon molta moltetuden de Prelate,
vadano e chi non va vi mandi l'oro.

Li Re che stanno sempre mai in piate,
li procer puoi di questa nostra fede,

o di volere o no, vi sien mandate.

Poi sirebbe grandissima mercede
che li tiranni, ch’hanno Italia morta,
andasser là, se nullo in Cristo erede.

De le città convien che ’1 frutto ne porta
parte avesser del pieno e della crosta
or che tendiam partire questa torta.

E i popolar, ch’a tirannia s’accosta,
sarebbe ben ch’andasser per sapere
quanto la ereseenta per tener costa.

Or ho io sodisfatto el mio volere
e dato quil conseglio, ch'io darei
pur per me stesso, s'avesse il potere.

Però, Signore e di buone e di rei, |
Spirito Santo, che l'anima sealdi
da la tua parte come dei,

fa li spiriti nostri tanto saldi,
che noi possiam diffenderte et offendere
ai Turchi, che se mostran tanto baldi.

E, se i Cristian non ce vorranno espendere,
piàcciate per mercè che la tua mano
sopra lor debbie con vendetta estendere,

sì che sia noto a tutto el geno umano.

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385 A. ALUNNO

Messer Bosone a Manoello Giudeo, essendo morto Dante CL:

Duo lumi son di novo spenti al mondo

in cui virtù e bellezza si vedea;

piange la mente mia, che già ridea

di quel che di saper toccava il fondo,
Pianga la tua del bel viso giocondo

di cui tua lingua tanto ben dicea.

O me dolente, chè pianger devea

ogni omo che sta dentro a questo tondo!
E pianga dunque Manoel giudeo

e prima pianga ’l suo proprio danno,

poi pianga ’1 mal di questo mondo reo,
chè sotto ’1 sol non fu mai peggior anno.

Ma mi conforta ch’i credo che Deo

Dante abbia posto ’n glorioso scanno.

A Pietro da Perugia (2).

Spirito santo di vera profezia,
Don Pietro mio, non è uom che mo l’abbia,
‘chè quale ad una quale ad altra rabbia,
sì ch'el cor non trapassa ove s'endia.
Benchè, congieturando, se porria
cognoscer ch’ el gratar suol fare scabbia
et alcun ten tanto ’1 pensiero en gabbia,
che puoi per arte a buca voleria.
Chè molte fiade se vede l’effetto
di cosa, prima ch’a noi si demostre,
ch’è separata dal vostro concetto.
Ma io pur profeta fuie dei fatte vostre,
ch'io disse che l’onlicito dilletto
pria mi tollea Don Pietro e poi gli encostre.

(1) Dal codice Casanatense d. v. 5, f. CXXIII.
(2) Dal codice Barberino XLV-130.

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è la BOSONE NOVELLO DE” RAFFALLLI, ECC.

Sonetto d’argomento politico (1).

I’ veggio un verme venir di Liguria,
avvolto addosso a una lupa fera;

e mena dietro una sì grande schiera
d'uecellon mischi, che lascian penuria.

Onde il leon se l’arreca a ingiuria,

e col grifon, ch'é suo vicino, impera;
bascia la volpe e poscia la pantera,
onde ’1 cavallo sfrenato ne infuria.

E tutto questo avvien però che ’1 monte,
che ha suo sopranome d'animale,
isparge troppo l'aequa di sua fonte.

Di ehe l’uccel di Giove batte l'ale,

e passa un'altra volta Rubiconte
per far mugghiar la vacca provenzale.

(1) Dalle Poesie Italiane Inedite di Dugento Autori di FRANCESCO 'TRuccHI.
Prato, Guasti, 1846.

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Il Romanzo di Perugia e Corciano.

PARTE PRIMA.

La leggenda cavalleresca nell' Umbria.

1. I canterini di Perugia. — 2. L’epica francese nell’ onomastica umbra..
— 3. Le « stratae francigenae ». — 4. San Francesco cavaliere. — 5. La
storia poetica di Carlo Magno in una cronaca francescana. — 6. La
leggenda della conquista franca di Assisi. — 7. Il » fallo » di Orlando
a Spello. — 8. Tradizioni popolari carolingie a Narni, Costacciaro,.
Gubbio, Norcia. — 9. Carlo Magno e re Artù a Foligno.

1. — Fu gioconda usanza della Rinascenza stipendiare
canterini per render più gaie le pubbliche feste e le cene
dei reggitori comunali con la recitazione di poesie e con il
suono della viola e della chitarra. Come la Signoria di Fi-
renze e le repubbliche di Siena e di Lucca, anche il Comune
di Perugia, fin dal 1385 — e forse da più addietro — teneva
al suo servizio uno o due cantastorie per allietare i pranzi
dei Priori e per rallegrare il popolo, specialmente nei giorni
di festa: in estate, nella piazzetta di S. Maria del Mercato,
e, quando il freddo impediva il cantare all'aperto, nel Palazzo
del Podestà. ;

Per tutto il secolo XV Perugia, come in genere le città
umbre, fu spesso in preda all'anarchia. Ma le risse frequenti.
e clamorose fra i partiti e i signorotti che si contendevano.
il potere, non di rado si quetavano per dar luogo a poetiche:

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-42 M. CATALANO

costumanze, ai balli, ai suoni, alle giostre, alle feste maggia-
iole (1).

La recitazione dei canterini, sposata con l'armonioso
‘suono degli strumenti a corda, serviva pur essa a ingentilire
«gli animi fieri e sanguinari ed era perciò favorita dal Co-
mune. È stata sempre l'amministrazione della cosa pubblica
causa di gravi preoccupazioni pei governanti, ma più lo do-
veva essere in quei tempi atroci, in cui, per gl’ irreconcilia-
bili dissensi di parte, chi teneva il governo si guadagnava
terribili inimicizie, per le quali la morte stava sempre in
‘agguato, pronta a colpirlo.

Era perciò naturale che i Priori di Perugia cercassero
di allontanare dalla mente, sia pure per breve tempo, le cure
angosciose di governo, distraendosi coi dolci canti e le ge-
niali improvvisazioni (2).

Qual fosse la materia cantata o recitata da cotesti rap-
sodi (toscani per la maggior parte, ma anche umbri), i do-
cumenti fanno conoscere imperfettamente. Il cantastorie Fran-
cesco d’Errico recitava nel 1462 le gesta degli antichi ro-
mani « et alias pulcherrimas ystorias et fabulas », ed era
molto apprezzato, perchè col canto insegnava « optima exem-
pla antiquorum romanorum » (1472). Simile lode i perugini
tributavano a maestro Angelo di Lucca (1478), che cantava
«de improviso cantilenas romanorum antiquorum vel alias
notabiles » (3). In sostanza nient'altro che una vaga, per
quanto ripetuta, allusione a storie di argomento romano. È

(1) Riccarpo Trurri, Giostre e cantori di giostre, Rocca S. Casciano, L.
Cappelli, p. 84 e segg.

(2) A. D’Ancona, Musica e poesia nell’ antico comune di Perugia, nella
Nuova Antologia, XXIV, 1875, p. 55 e segg., ripubblicato poi con titolo
diverso: I canterini dell’ antico comune di Perugia, nelle Varietà storiche e
letterarie, 1* serie, Milano, Treves, 1883, p. 39 e segg.

(3) Vedi i documenti editi da Apamo Rossi, Memorie di musica civile in
Perugia, nel Giornale di erudizione artistica, vol. III.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 43

probabile che queste consistessero in rifacimenti dell’ Eneide o
in versioni dei fatti di Giulio Cesare, straordinariamente diffusi
tra noj nel medioevo (1). Le altre bellissime favole erano i
racconti del ciclo troiano e tebano, i cantari carolingi e bret-
toni, le leggende religiose, i contrasti, i canti politici, i fa-
volelli, i testi, insomma, in rima e in prosa, della letteratura
popolare e semipopolare che formavano il patrimonio dei
canterini da piazza, non escluse alcune opere dotte, come la
Commedia dantesca (2).

Che gli altri comuni dell’ Umbria stipendiassero canta-
storie non risulta da precisa documentazione. Nel 1384 vi.
veva in Assisi un « Meneco buffone » della Porta di S. Giaco-
mo (3), ma non pare che vi avesse stabile dimora, perchè
i sollazzevoli tipi dei buffoni, molto affini ai giullari, erano
piuttosto prezioso ornamento delle splendide corti dei Gon-
zaga, degli Estensi, dei Visconti, degli Aragonesi e dei pon-
tefici, ove i loro lazzi rallegravano i conviti e le feste.

2. — La recitazione lasciava negli ascoltanti rimem-
branze care che venivano rievocate nell’ inverno, vicino alla
cappa dei camini, ove guizzava e scoppiettava la fiamma dei
ceppi e delle fascine, o quando si dovevano battezzare i nuovi

(1) E. G. Paropi, / rifacimenti dell’ « Eneide », negli Studi di filologia
romanza, vol. II; ParopI, Le storie di Cesare nella letteratura ‘italiana dei
primi secoli, negli stessi Studi, vol. IV.

(2) Vedi, oltre le opere di letteratura generale (ad es. Vorrr, IZ Trecento,
p. 358 e segg.; Rossi, I Quattrocento, p. 167 e segg., 287 e segg.), lo studio
speciale di Ezio Levi, I cantari leggendari del popolo italiano nei secoli XIV
‘e XV, pp. 5-19 (Suppl. N. 16 del Giorn. storico della letter. italiana). È noto
che il Cantare dei cantari costituisce un ampio repertorio delle leggende
medievali cantate dai giullari. Cfr. P. RasNa, Zi Cantare dei cantari ecc., nella
Zeitschrift für roman. Phil., II, 1878, p. 220 e segg. Una raccolta di cantari,
destinati alla recitazione, si trova nel cod. 160 della Comunale di Perugia,
ma ha origine prettamente settentrionale.

(3) È testimonio in due rogiti del 18 luglio e del 25 agosto 1384 (Atti
«di not. Giovanni di Giacomo di Pietro, 1379-92, c. 26, 32, nell'Archivio no-
tarile di Assisi).

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44 M. CATALANO

nati. Allora le ben note leggende salivano alla memoria e
ai pargoli s' imponevano i celebri nomi dei paladini di Fran-
cia, dei cavalieri erranti e delle bionde damigelle cantate
nelle più famose. canzoni di gesta o nei più palpitanti ro-
manzi d'amore. Dal Libro rosso del comune di Gubbio, dagli
Annali decemvirali di Perugia, dai codici diplomatici di Fo-
ligno e di Orvieto, sono stati raccolti nomi, anche del duo-
decimo secolo, che attestano il meraviglioso divulgarsi del-
l epica francese nell Umbria.(1) Molto diffusi furono i Vi-
viani (1199), i Marsilài; (1202), i Turpini (1212, 1230), gli CE-
vieri (1240) ed altri nomi famosi dell’ epopea carolingia che
ebbe miglior fortuna della brettone. Ma talvolta erano scelti
quelli meno noti e perció piü caratteristici. I nostri occhi si
appuntano su di un Abrurnamons del 1217 e su di un Bru-
namonte del 1281 e del 1243, che ricordano il Brunamon della
leggenda di Uggeri il Danese. Un Agolante del 1232 conferma
la popolarità grandissima che ebbe tra noi la chanson d’ A-
spremont. Un Alisante del 1240 dovette il suo nome a un let-
tore della Chanson de Chevalier au Cygne (2). Ma Y indagine
non è finita e certamente si scopriranno nei mal noti
archivi umbri altri esempi che aggiungeranno nuovo ma-
teriale a quello raccolto dal Rajna in una sua dotta inda-
gine (3).

3. — La causa delle tracce antiche e profonde, lasciate
nell’ onomastica umbria dall’ epopea cavalleresca, oltrechè
dalla presenza a Perugia di una numerosa schiera di can-

(1) Molti nomi dell’epopea carolingia e brettone sono stati raccolti dalle
carte umbre dei secoli XII e XIII nel Bollettino. storico per l’ Umbria, I, 432,
e II, 188. A me 6 occorso di ricavarne parecchi altri dagli atti dei notai
assisani del tre e quattrocento.

(2) Mi servo per il confronto con i testi epici francesi dell’ utile Table
des noms propres de toute nature compris dans les chansons de geste imprimées
compilata da Ernest LanGLOIS (Paris, Bouillon, 1904).

(3) Contributi alla Storia dell’Epopea e del Romanzo medievale (L’onoma-

stica italiana e l’epopea carolingia), in Romania, t. XVIII.

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IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 45

terini, ci viene spiegata dagl’ itinerari dei pellegrini che
dalla Francia si recavano alla tomba di San Pietro.

Tutte le strade conducono a Roma — dice il prover-
bio — ma i pellegrini francesi, accompagnati dai giullari,

percorrevano vie determinate, che coincidevano con le anti-
che strade romane ed erano indicate in carte apposite, insie-
me con le città o stationes,.ove essi si dovevano fermare per
riposarsi. Queste vie erano pur quelle percorse dai mercanti,
dagli ambasciatori, dalle armate e avevano il nome caratte-
ristico di siratae francigenae (vie francesi). I pii viandanti
penetravano in Italia dai valichi noti delle Alpi, dal Gran San

‘ Bernardo, dal Moncenisio, dal Colle di Tenda, affluivano

nella vasta pianura padana, seguivano la via Emilia per Mo-
dena e Bologna, varcavano l'Appennino, si fermavano ad
Arezzo, costeggiavano il lago Trasimeno, traversavano l'UÜm-
bria occidentale, si riposavano in Orvieto, raggiungevano il
Tevere e s'indirizzavano alla volta della Città Eterna (1).
Durante il viaggio diffondevano il loro mistico fervore, la
lingua e il patrimonio ideale della loro patria. Da essi, o
per lo meno grazie al loro innegabile influsso, il Santo di
Assisi apprese la dilettevole lingua d’ o? e l'ardore religioso
che doveva rinnovare la cristianità. Per merito di S. Fran-
cesco sono legate alla città che gli diede i natali le più glo-
riose, se non le piü antiche, testimonianze della propaga-
zione nell' Umbria dell' epopea francese (2).

(1) Báprgm, Les chansons de geste et les routes d'Italie, in Les légendes épi-
ques, Paris, Champion, 1917, v. II, p. 145 e segg.

(2) Per i rapporti tra la cavalleria e S. Francesco, oltre delle fonda-
mentali biografie del SAsATIER e del IoEnGENsEN, vedi G. BertoNI, San Fran-
cesco cavaliere, a pp. 111-119 degli Studi su vecchie e nuove poesie e prose
d'amore e di romanzi, Modena, 1921 e P. Virrormo Faccunerti, San Fran-
cesco d'Assisi nella storia mella leggenda mell’arte, Milano, 1921, che ha in
proposito un lungo e mal digerito capitolo. Sull'argomento il prof. LoRENZO
MrccoLi ha pronto per la stampa un elaborato studio, del quale ha
dato un breve saggio (S. Francesco e il pazzo, a pp. 73 - 74 dell’ Annuario

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M. CATALANO

4. — Il suo stesso nome gli ricordava perennemente
quella terra lontana, culla del fantastico epos che gli aveva
accarezzate le orecchie e colpita l'immaginazione fin dal-
l' adolescenza. O la Francia, la Francia! o vivere in Fran-
eia, morire nella dolce terra che aveva conosciuto soltanto
a traverso le epiche leggende dei trovieri e le narrazioni
fantasiose dei pellegrini ! | | AUS

Spirito festoso, da giovane faceva risonare le vie di As-
sisi dei suoi canti giocondi e si appassionava per i romanzi
di cavalleria, nei quali leggeva le straordinarie gesta degli
eroi che conquistavano un regno o l’amore di una donna
con la punta della lancia. E poichè, secondo l’ attestazione
di Tommaso da Celano, il giovane Francesco parlava il fran-
cese, non sarà strano supporre che abbia imparato a cono-
scere le leggende cavalleresche, oltre che porgendo ascolto
ai randagi cantori di piazza, anche leggendo i poemi e i ro-
manzi che il padre poteva agevolmente acquistare per le
frequenti relazioni di commercio che intratteneva con la
Francia, da cui importava stoffe preziose e delicati vestimenti.

Eccolo, nella doviziosa casa natia, immerso nella lettura
delle prodigiose canzoni. Invano il padre cerca di richia-

‘marlo a studi più fruttuosi e ad occupazioni più pratiche.
Le rudi lasse della Chanson de Roland, ove le assonanze —
direi quasi — metalliche risuonano cupamente, come colpi
di maglio, alla fine di ogni verso, lo commuovono e lo ine-
briano. Un desiderio prepotente di gloria gli si accende
nel cuore e lo induce a preparare armi e un ricco equi-
paggio per acquistarsi fama come i suoi eroi prediletti. E

del R. Istituto Magistrale « R. Bonghi », Anno I, Assisi, 1924),. È sugge-
stivo rilevare nelle pergamene medievali che era dato il nome di Strata
Francisca (a. 1070) o di Strata Francigena all’ antica, via sotto Assisi, che
dal Tescio sale serpeggiando verso il Santuario di Rivotorto. Inoltre sul
Tescio nel 1160 esisteva ed esiste tuttora un Pons Gallorum. Cfr. E. D'ALEN-
cox, L’abbaye de Saint- Bénoit au mont Soubase près d’Assise, p. 16 (estr. dagli
Études Franciscaines, Octobre 1909). £*

IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 47°

quando all’esaltazione giovanile subentrerà il mistico appas-
sionato fervore di fede religiosa, egli presterà al prode Or.
laudo, al saggio Oliviero, a Carlo Magno dalla barba fiorita,
le stesse virtù dei martiri della chiesa e chiamerà i suoi
compagni paladini della Tavola Rotonda (1).

i Così i sogni cavallereschi dell’adolescenza si disposavano
all idea religiosa. Oh che non è altro la Povertà, la dama
dalla quale sognó di ricevere il bacio d'amore prima di mo-
rire, se non la mistica trasformaziono delle Isotte dalle bian-
che mani o delle Ginevre, le cui avventure facevano bat-
tere tanti cuori nei sontuosi palazzi e negli umili casolari ?
E quando, tutto solo, celando nel cuore il suo mistero, si

segregava sul Subasio, per offrire all'Onnipotente lo spasimo.
dell'anima sua, oh che allora non appare simile ai cavalieri.
erranti che alle foreste e ai ruscelli e. alle verdi praterie

confidavano i segreti e la tristezza dell'anima loro?

5. — Dopo S. Francesco la leggenda cavalleresca con-
tinuó, in Assisi, a fiorire, alimentata dagli stessi seguaci del
Santo.

Nel codice 341, appartenente all'antico fondo france-

scano della Biblioteca Comunale, si legge una cronaca an-

cora inedita, scritta in un rozzo latino di difficile grafia ed
irto di abbreviazioni. Ha per titolo « Cronica seu Liber me-
morialium diversarum historiarum post Constantinum » e fu
composta da un umbro dimorante in Assisi, che forse sarà
da identificare con un maestro Giovanni Elemosina, del
quale si conservava in S. Rufino il testamento con la data

del 1339 (2). Che l'autore debba essere stato un frate minore,

(1) Speculum perfectionis seu S. Francisci assisiensis legenda antiquissima....
(ed. P. Sabatier), Paris, 1898, p. 10 e 143.

(2) Sul verso del piatto ligneo di coperta, di carattere coevo alla cro-.
naca, si legge la seguente memoria: « Liber iste memorialis diversarum

historiarum ponetur in armario sancti Francisci de Asisio quia sie compro-

missum fuerit inter custodem sancti Francisci et fratrem Elemosinam.

de voluntate et consensu ministri tamen usu ipsius libri fratris Elymo-

sine reservato dum vivit ».

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-48 M. CATALANO

sì desume facilmente dai numerosi luoghi della cronaca in
cui si parla di S. Francesco e dall interesse col quale è se-
guito il movimento francescano (1).

L'epoca, in essa abbracciata, va da Costantino Magno al
1335: non molto posteriore a quest'anno deve ritenersi la
data della composizione. La cronaca non si discosta dal tipo
ben noto delle compilazioni storiche medievali: l' autore hi
racimolato qua e là notizie di carattere generale alla rinfusa
e vi ha aggiunto accenni a personaggi e avvenimenti locali,
che diventano sempre più frequenti ed interessanti a mano
a mano che ci avviciniamo al secolo XIV.

Il codice 341 racchiude un abbozzo originale da cui
doveva trarsi la stesura definitiva. Ce le dice lo stato in-
forme del manoscritto, composto di pergamene d’ ineguale
grandezza, talune palinseste, altre bucherellate e rattoppate
alla meglio: ce ne fa fede l’esame del testo, nel quale spesso
la stessa notizia è ripetuta, a breve distanza, due e anche
tre volte, perchè cavata da fonti differenti: ce lo confermano
le aggiunte, non collocate al loro posto per difetto di spazio o
per la fretta del raccoglitore, oppure trascritte a pie’ di pa-
gina e contrassegnate con la nota: « Suppletio de aliis hy-
storiis », o anche, più brevemente: « Suppletio ».

Tuttavia questa farraginosa compilazione, insieme con
molte finzioni, racchiude preziose notizie attendibili e im-
portanti per la storia dei comuni dell’ Umbria. Merita perciò

‘che sia pubblicata o almeno che sia resa nota per larghi
‘estratti (2).

(1) Cfr. c. 110v - 118, 114, 115 v, 118 (morte di S. Francesco), 121

(gesta dei frati minori), 192 (S. Chiara), 123 v, 126, 127 ecc.

(2) Sarebbe bene che si mettessero in luce gli stretti rapporti che ha
con altre cronache medievali (ad esempio, con quella contenuta nel cod.
9006 della Biblioteca Nazionale di Parigi, con i Memorabilia civitatis Eugubii,
ms. della Sperelliana di Gubbio e con le cronache gualdensi della Vatica-
na. Il dott. Ruggero Guerrieri di Gualdo ha preparato in proposito un lavoro

dal titolo: Le cronache e le agiografie medioevali gualdensi ed i loro rapporti
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 49

Dal recto di carta 67 al verso di c. 75 del manoscritto
si estende una biografia di Carlo Magno, ricca di elementi
leggendari, desunti in parte dallo Pseudo - Turpino e in
parte, per la trafila di altre cronache, da chansons de ge-
ste. La figura dell’imperatore franco vi campeggia in tutta
la sua imponente storica grandezza di difensore della reli-

N-

gione, di restauratore del sacro romano impero, e di acer-

rimo nemico degl'infedeli. Ma la sua persona vi è descritta
con particolari favolosi. Egli è di statura gigantesca e di
forza prodigiosa: con un colpo di spada taglia in due un ca-
valiere col suo cavallo; con le mani puó stendere senza
sforzo quattro ferri di cavallo; con una sola mano solleva
all'altezza del capo un guerriero gravato del peso dell ar-
matura. Queste meraviglie derivano dal cap. XXI dello
Pseudo-Turpino, che tratta: « De persona et fortitudine Ca-
roli » (1).
Alla rotta di Roncisvalle e al pianto di Carlo Magno
sul corpo del suo nipote sono dedicati due capitoli: il primo,
di una certa lunghezza, intitolato « De morte Rollandi et
franchorum et palatinorum »; il secondo, più breve: « De
magno fletu Karoli et francorum », che sono un rifacimento,
con differenze poco apprezzabili, dei capitoli XXII-XXX della

con. le altre cronache e leggende agiografiche umbre. Per .ora sul cod. 841 v.
SBARALEA, Supplementum ad, scriptores trium ordinum S. Francisci, Romae,
1806, p. 57; P. Francesco EnrLE, Notizie sui manoscritti della biblioteca di
S. Francesco di Assisi, in Miscellanea francescana, II, 1887, pp. 11-26 (il
cod. vi è citato erroneamente col n. 841); L. AressAnDRI e G. MAZZATINTI,
Inventario dei manoscritti della biblioteca di S. Francesco di Assisi, negli. Zn-
ventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, IV, 77 - 78; e specialmente
L. ALESSANDRI, Inventario dell’antica biblioteca di S. Francesco in Assisi com-
pilato nel 1381, Assisi, 1906, pp. 184 - 190.

(1) Mi servo dell’edizione del Ciampi (Firenze, 1828), ma ho pure con-
ssultato l'edizione più moderna del Castets (Montpellier et Paris, 1880).

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50 M. CATALANO

cronaca turpiniana. Il raffronto di qualche brano nei due
testi farà meglio constatare la derivazione dell’uno dall’altro:

Pseudo-Turpino, cap. XXII
... erant tune temporis commo-
rantes apud Caesaream Augu-
stam duo reges saraceni, Marsi-
lius scilicet et Belvigandus fra-
ter eius, qui erant ab Almiraldo
Babylonis de Perside ad Hispa-
niam missi, et Caroli imperiis
subjacebant, ..... quibus Carolus
per. Ganalonum mandavit, ut
baptismum subicerent, aut ei
tributum mitterent. Tune mise-
runt ei XXX equos ornatos auro
et argento gazisque hispanicis,
et LX equos vino duleissimo et
puro oneratos miserunt pugna-
toribus ad potandum, et mille
mulieres saracenas formosas ad
faeiendum stuprum. Ganalono
vero viginti equos auro et ar-
gento et palliis praetiosis one-
ratos fraudolenter obtulerunt, ut
pugnatores illorum manibus tra-
deret ad interficiendum ; qui
concessit et pecuniam illam ac-
COPI ...:..

Liber memorialium, c. 14v
Cum jam venissent ad Cesaream
Augustanam eivitatem, misit Ka-
rolus Gainelonem comitem Bur-
guodie ad duos reges et ammi-
ratos saracenorum, qui domina-
bantur in Caesarea Augusta, sic
preeipiens eis quod, vel dimi-
terent terram, quam olim oc-
eupaverat, vel tributum solve-
rent et battigarentur cum omni-
bus. Ipsi vero Reges, audita
iussione, perterriti obtulerunt
Gainelonem pretiosa munera et
thesauros ...... Ipse vero perfi-
dus proditor Gainelon, corruptus
peeunia et muneribus, siti ava-
ritie estuans et inebriatus pecu-
nia, velud Iudas oblitus Christi,
tradidit Christianos ...... Sara-
ceni, ut docti fuerant, miserunt
Karolo et. prineipibus munera
pretiosa et quadringentos equos
honeratos vino dulcissimo et po-
tenti et mille saracenas pulcher-
rimas, que allicerent animos
Franchorum ad luxuriam ....ì.

La leggenda carolingia sié perció diffusa nell'Umbria, non
soltanto per via orale o per mezzo di componimenti poetici,
ma anche con opere storiche o che tali nel medioevo veni-
vano considerate (1). Interessante la forma Ganelon, che si

(1) La stessa riflessione per il Veneto ha fatto il Bertoni, studiando una

breve notizia sulla morte di Orlando in un codice estense. Cfr. Un nuovo

accenno alla rotta di Roncisvalle, in Studi su vecchie e nuove poesie e prose

d’amore e di romanzi cit., p. 114.
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IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 51

trova nei componimenti francesi e franco-italiani, (ad esem-
pio nell’ Entrée d' Espagne, v. 2920, 3027, 1056 ecc.) e con-
ferma l'origine settentrionale della fonte alla quale attinge
il cronista francescano (1).

Le altre parti della biografia ripetono note leggende ed
arricchiscono di qualche particolare la storia poetica di Car-
lomagno.

Vi si legge la favola di papa Leone, accecato dai Ro-
mani, che riacquista la luce degli oechi (2); la guerra con-
tro i Sassoni vinta, secondo il cronista, da Carlo « cum
suis nepotibus Rollando et Oliverio ed aliis palatinis »; la
favolosa conquista di Terrasanta con ladorazione del sacro

Sepolero; la visita a Costantinopoli, ove Carlo riceve dal.

l’imperatore Michele ricchi presenti, che rifiuta in cambio
di reliquie di Cristo e di santi; la traslazione del corpo di
S. Antonio, abbate dalla Tebaide, a Vienna per opera del
paladino Oliviero (c. 73 v).

La caduta del regno dei Longobardi è narrata con i so-
liti particolari, in cui la storia è mescolata alla favola, co-
muni alle cronache guelfe. La figlia di Desiderio, ripudiata

da Carlo, non si chiama Ermengarda, ma Berta. Questo

nome è ignoto a Gaston Paris, che ha raccolto notizie co-
piose sulle mogli attribuite dalla leggenda a Carlomagno (3);
ma si trova nella celebre cronaca della: Novalesa (4).

Additiamo ancora nella narrazione della conquista della.

Lombardia l' allusione a Amis e Amile (c. 68 v), i due cava-

(1) Sulle varie forme del nome del celebre traditore vedi Romania, XI,
p. 486 - 487.

(2) I testi delle leggenda sono discussi da Gaston Panis nell’ Histoire

poétique de Charlemagne ?, p. 421 - 423, opera classica alla quale mi riferisco
per gli altri raffronti. )

(3) Op. cit., p. 378 e segg.

(4) CarLo CipoLLa, Monumenta Novaliciensia vetustiora (Istituto storico.
italiano - Fonti per la storia d’Italia), Roma, 1901, II, 131-2. V. pure:
BépIER, Op. cit., II, 164 - 5..

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lieri francesi morti in battaglia e sepolti in due differenti
sarcofagi, ma riuniti maravigliosamente in una sola arca da
un vincolo d’affetto più forte della morte. La cronaca afferma
che i sepolcri dei due perfetti amici si ammirano a Morta-
ria, che è senza dubbio Mortara (1).

Il paragrafo intitolato « De magno monasterio Sancti
Petri quem Karolus construxit » contiene un’ ignota tradi-
zione carolingia collegata alla fondazione del Monastero di
S. Pietro in Nonantola. Crediamo prezzo dell’opera riferire
integralmente il brano (c. 69 v):

In memoriam vero illius victorie (su Desiderio) Rex Karolus:
ad honorem dei omnipotentis et beate Marie semper virginis et
beati Petri principis apostolorum Monasterium magnum ibidem
eonstruxit et mirifiee dotavit quod usque hodie sanctus Petrus de
Nonantula dieitur, testibus in privilegiis Rolando, Oliverio et ce-
teris palatinis.

La notizia ha tutta l'aria di rimontare a false perga-
mene, fabbricate per sostenere i diritti del monastero in liti
giudiziarie o anche semplicemente per farne rimontare la
fondazione a un'epoca piü antica del vero (2).

6. — Non mancano allusioni a leggende prettamente
umbre. La narrazione della conquista franca di Assisi é ri-
petuta due volte con particolari differenti. La prima versione
è stata pubblicata da uno storico assisano che l’ha infiorata
di parecchi errori di lettura. Riferiamo in breve l'interes-
sante episodio.

Secondo un'antica tradizione Assisi era abitata da gente
longobarda terribile e feroce, che l'aveva abbellita di palazzi

(1) Sulla leggenda di Amis e Amile v. BrRToNr, Il Duecento, p. 45 - 46
e BÉpimm, II, 178 e segg.

(2) Nulla in proposito nella Storia dell'augusta badia di S. Silvestro di
Nonantola del Trragoscni (Modena, 1774).
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO Da

e circondata di fortissime mura. Carlo Magno la strinse d’as-
sedio inutilmente per parecchio tempo e riuscì ad espu-
gnarla soltanto con uno strattagemma, introducendo per una
cloaca una schiera di armati nella città. Gli abitanti furono
passati a fil di spada: le rocche e le torri abbattute : la terra
fu data ad abitare ai cristiani (1). Il racconto può anche ri-
posare su di un fondo storico, non ostante che abbia un co-
lorito un po’ romanzesco, e il Cristofani fece bene a riferirlo,
con le debite riserve, nelle Storie di Assisi (2).

Puramente favolosa è invece l'altra inedita versione, se-
condo la quale l'espugnazione di Assisi e la conquista franca
dell Umbria sarebbe dovuta al valore dei paladini Orlando
e Oliviero, che, secondo il cronista, erano fratelli (3).

(1) Belisario e Alfonso il Magnanimo usarono di un simile espediente
per impadronirsi di Napoli. Cfr. D'Ancona, Le tradizioni carolingie in Italia,
in Saggi di letteratura popolare, Livorno, 1918, p. 27.

(2) Assisi, 1902, p. 80 - 31. Il brano comincia così (c. 80 v del cod. :
» Invenimus autem in antiquis scripturis ». Bisogna tener fede à questa
affermazione, perché il cronista è scrupoloso, vaglia le varie versioni dei
fatti e spesso rigetta le piü favolose. Interessante un passo non edito dal
Cristofani: « Hec igitur distructio et restauratio Asisinate urbis, si facta
fuit a Karolo magno cum palatinis circa annos domini DCCCX,
certum est quod longobardi ... ».

(3) Il brano è inedito, forse perchè seritto con pessima scrittura, qua e là
svanita. Ho dovuto adoperare per leggerlo tutta l'acies di cui i miei occhi sono
capaci, e tuttavia non vi sono riuscito che imperfettamente : « Et quamdam
aliam traditionem accepimus quod,.cum rebelles sancte Ecclesie et Romani
imperii provinciam Umbrie, scilicet ducatum Spoletanum, detinerent, poten-
tissimus Karolus vocatur ab ecclesia Perusiam et Asisiam recuperandum
et Eugubiam et Spoletanum. Et sic traditur Olyverius palatinus et Rolan-
dus fratres et alii comites et milites vietoriosi in (sic) ymperialis aule Ka-
roli, gloriosa bella facientes in ducato Spoletano, provinci&m Apiceni, Viler-
gherum (?) ... civitates et castra de servitute longobardorum liberaverunt
et obssessam diu Asisiam ceperunt ut, ocisis rebellibus, ipsam terram veris
catholicis repleverunt. Ita et Perusiam et Eugubiam, Tadinatum et Rosel-

lam et ... terras et Spoletanum et Nursiam » (c. 69 v).

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D4 M. CATALANO

Alla prima versione fa seguito una leggenda araldica.
Nell entrare in Perugia Oliviero avrebbe ricevuto festosis-
sime accoglienze e gli abitanti, d'allora in poi, ne avrebbero
onorato la memoria, prendendo per arme le sue insegne.
La tradizione è nota per altri testi, tra i quali il Komanzo
di Perugia e Corciano, che esamineremo nella seconda parte
di questa trattazione.

In Assisi sino a pochi anni fa si contava, e forse si racconta
ancor oggi, di due frati minori che, andando per un bosco
alla ventura, capitarono in una spelonca ove un gigante cu-
cinava crischièéne (coratelle di uomini). Era il crudelissimo
Occhialone, che portava, come Polifemo, un occhio solo in
mezzo alla fronte. A simiglianza di Ulisse i seguaci di San
Francesco riuscirono a far bere abbondantemente Occhialone
e a bruciargli con un tizzo l unico occhio. Il gigante, non
ostante che fosse privo della vista, insegul i frati e forse li
avrebbe raggiunti, se nel bosco non si fosse trovato a pas-
sare il paladino Orlando, che, uccidendo il mostro con la sua
invincibile spada, li salvò da morte sicura (1).

1. — E bene ora che da Assisi e Perugia ci moviamo
verso le altre città che ingemmano la ridente regione um-

bra. S' intende che le tradizioni riguardano quasi sempre i

nomi più famosi dell’epopea carolingia: Carlo Magno e Or
lando. i

Da parecchi secoli Spello si vanta di mostrare sulla via
nazionale che muove ad Assisi, a poca distanza dal borgo,
alcuni incavi e sporgenze, che rappresenterebbero le misure
del gigantesco corpo di Orlando. Più precisamente una spor-
genza a circa tre metri dal suolo indicherebbe l'altezza del
collo, due incavi ovoidali, a m. 1.63, quella del gomito, e la
incavazione più profonda, a.90 centimetri, quella del ginoc-

(1) La fiaba è riferita, insieme con altre leggende di Spello e di Perugia
da G. Mienmi, Tradizioni dell’epopea carolingia nell’ Umbria, Perugia, 1883,
pp. 19 - 20 (estr. dal giornale perugino La Provincia).
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO: 95

chio (1). A queste impronte allude la nota iscrizione latina
che Taddeo Donnola fece scolpire nel 1635 di fronte alla
Chiesa di S. Ventura:

Orlandi hic Caroli Magni metire nepotis
Ingentes artus: cetera facta docent.

Ma la leggenda ebbe deformazioni curiose. La fantasia
popolare credette che un altro incavo, che sembra fatto con
un grosso chiodo o scalpello, a m. 0.65 dal suolo, fosse pro-
dotto da Orlando ictu mingendi (diciamolo anche noi in latino
come gli altri illustratori delle impronte). |

In tempi recenti qualche bello spirito si dovette diver-
tire a dare della sporgenza più elevata una interpretazione
bizzarra e allegra ai forestieri che viaggiavano per diporto:
il fatto si è che il Valery la credette « un gros phallus de
pierre », frase che non tradurremo per non fare arrossire i
nostri candidi lettori. A questa varietà della leggenda allude
il Carducci (2) nella prefazione all’ Orlando Furioso (si ricordi:
« Ruodlando .. gigante e peccatore a Spello) ».

Si racconta pure nella medesima cittadina che Orlando
fu fatto prigioniero dagli abitanti e rinchiuso in una casetta.
Ma, svelato l’incognito del gran paladino, gli Spellani lo libe-
rarono e lo presero per loro protettore: molti in seguito lo ac-
compagnarono in Francia e morirono con lui a Roncisvalle (3).
Oggidì si mostra ancora vicino a Porta Venere una casetta
di grossi muri, congiunta ad una torre e volgarmente deno-
minata la prigione d’ Orlando. Le cronache locali degli Olorini

(1) Le misure esatte furono prese da Filippo Accorimboni e controllate
da altri. Vedi D'Ancona, Le tradizioni carolingie in Italia cit., p. 14-15 e
G. UrBINI, Spello Bevagna Montefalco, Bergamo, Istituto italiano d'arti grafi-
che, 1913, p. 22 (Collezione di monografie illustrate).

(2) Opere, XV; 269.

(3) Unam, Op. cit., p. 28.

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56 M. CATALANO

registrano l'avvenimento all'anno 790 e così si esprimono:
« Orlando conte francese e nepote del Re Carlo Magno fu
fatto prigione in Spello, per gelosia militare, nella Rocca o
Torre presso Porta Venere; dopo andó con molti Spel!ani,
Umbri e Francesi à Roncisvalle, ove fu martirizzato con
moltissimi suoi l’anno 801 ». La notizia fu scritta nel se-
colo XIV e tramandataci in una forma più moderna (1).

L'aecenno al martirio si riconnette con le tradizioni che
celebrano la santità di Rolando e lo rappresentano nelle fi-
gurazioni artistiche col capo cinto da un nimbo. Com'é noto,
nel poema dantesco, fra le anime del cielo di Marte, splende,
insieme con Carlo Magno, Goffredo Buglione e altri guerrieri,
morti nelle lotte contro gl'infedeli, anche l’anima benedetta
di Rolando.

8. — Alla leggenda spellana del fallo possiamo far se-
guire quella non meno bizzarra, e naturalmente pure di ori-
gine popolare, dell'origine del fiume Nera, che Orlando avrebbe
fatto nascere per soddisfare a un suo bisogno, tenendo uno
dei suoi piedi giganteschi a Narni e l’altro sul monte S. Cro-
ce (2).

A un miglio circa da Narni, a sinistra della strada che
conduce a Roma, i paesani additano una spelonca naturale
chiamata la grotta d'Orlando, e alcuni massi di forma rego-
lare che costituiscono /a sedia del gran paladino. Alla grotta
e alla sedia sono congiunte leggende cavalleresche. Racconta
il popolo che Orlando, dovendo combattere con ‘nemici nu-
merosi, si rifugiò insieme con i suoi paladini in quella grotta,
dalla quale spesso usciva per sedersi su di un masso a spiare
i luoghi circostanti. Ma i nemici non si fecero cogliere ed

(1) FaLoci PuLienanI, Le cronache di Spello degli Olorini, nel Bollettino
della R. Deputazione di storia patria per V Umbria, XXIII, 1918, p. 249.

(2) C. TRABALZA, I nuovi frutti del lavoro, Perugia, Tipogr. Cooperativa,
1899, p. 192.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO DII

egli, perduta la pazienza, spaccò con un colpo di spada il
masso che gli serviva da sedia (1).

Evidentemente il racconto deriva, per molti gradi inter-
medi, dal luogo della Chanson de Roland, in cui il paladino,
volendo rompere Durindana, non riesce che a scheggiare la
pietra. La vecchia leggenda è tenace e ancor oggi vegeta
rigogliosa, abbarbicata com’ edera ai ruderi medievali e alle

| pittoresche contrade umbre.

Alla Chanson de Roland rimonta pure la tradizione legata
alle cinque profonde fenditure che si vedono sul ciglio del
colle di Orlando, vicino a Monte Cucco, nella strada pro-
vinciale che da Costacciaro va a Scheggia. La fantasia po-
polare si è sbizzarrita a darne la spiegazione: chi vorrebbe
che Orlando paladino impazzito producesse le cinque spac-
cature con la spada; chi invece ritiene che le abbia fatte il
diavolo, posando sulla roccia la mano incandescente aperta (2).

Accoglienze entusiastiche ricevette a Gubbio Carlo Magno
(così raccontano antiche cronache eugubine), che volle gra-
ziosamente concedere alla città uu privilegio e la « bellissima
reliquia » di un dito di S. Giovanni Battista (3).

(1) La grotta e la sedia d? Orlando presso Narni, in 'TRABALZA, Op. cit.,
pp. 189 - 195.

(2) G. BeLLucci, Il colle d' Orlando presso Costacciaro, in Leggende, cre-
denze e costumi popolari del Umbria (Annuario del Club Alpino italiano - Se-
zione di Perugia, 1884, disp. 1*); Da informazioni favoritemi da intelligenti
persone .del luogo risulta che le spaccature sono avvenute per la friabilità
degli strati corrosi dalle acque. La fenditura prodotta dal pollice della
satanica mano è profonda 8 metri, quella dell’ indice 15 metri e le altre in
proporzione. ES

(3) Le notizie del passaggio di Carlo Magno per Gubbio si leggono in
Gesta eugubinorum ab aedificatione civitatis ad annos MCCC Greffolini Valeriani,
editi dal Mazzatinti nel vol. I. de Gli Archivi della storia d’Italia (Rocca
S. Casciano, 1899). Cfr. lo scritto del Mianini, Carlo Magno a Gubbio, nella
Rivista critica della letteratura italiana, a. V., 1888, p. 30, che riporta, oltre
al brano del cronista sopracitato, anche un passo desunto dalla Storia di
Gubbio del secentista Picotti. i
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CATALANO

Chiudiamo questa rapida rassegna delle tradizioni caval-
leresche umbre col ricordare che all’antro della Sibilla presso
Norcia è congiunta, tra le molte leggende, anche quella del
popolarissimo Guerrino il Meschino (1).

9. — Non esiste alcun’opera d’arte umbra che si ispiri

-all'epopea francese. Un tempo, nel Palazzo dei Trinci a Fo-

ligno, tra le ventinove figure grandiose che adornavano la

«sala detta dei Giganti, erano rappresentati, insieme con gli

eroi mitologici e biblici, anche il leggendario re dei cavalieri

‘erranti, il foys .rtus (così appunto la scritta nell'antico lin-

guaggio di oZ), Carolus Magnus e Cothifredus de Bour Bou-
glion (sic), i personaggi principali dei tre massimi cicli epici
francesi. Gli affreschi colossali, eseguiti verso la fine del tre-
cento o nei primi anni del quattrocento, sono oggi orribilmente
deturpati. Ma l'immaginazione popola le mute ampie stanze
e fa rivivere i fantasmi guerrieri e le gentili femminili figure
della corte dei Trinci (2).

(1) Cfr. A. Grar, Un monte di Pilato in Italia, in Miti leggende e superstizioni
del Medio Evo, Torino, Loescher, 1898, II, 150 e F. Torraca, Nuove rassegne,
Livorno, Giusti, 1895, p. 179. S’ intende che trascuro di elencare le citazioni
di Carlomagno, di Orlando, di Gano, di Artù nei testi letterari, come L’Altro
Marte del perugino Lorenzo Spirito, il Quadriregio del folignate Federico Frezzi
ecc. Gualdo diede i natali a tre scrittori di poemi cavallereschi: Pier Durante
della fine del sec. XV, che compose la Leandra; Francesco Tromba che scrissé
la Draga d’ Orlando, il Rinaldo Furioso, la Trabisonda e un poemetto storico
su fatti contemporanei all’autore; Girolamo Tromba che rimò il Libro delle
battaglie del Danese. Le edizioni rarissime di questi poemi sono elencate dal
Metzi e Tosi, Bibliografia dei romanzi di cavalleria italiani, Milano, 1865.
Il primo libro della Draga d? Orlando non contiene nessuna leggenda
umbra, come si può vedere dal diffuso riassunto del VawzoriNr nel Propu-
gnatore, N. S., v. IV, parte II, pp. 65 - 102; ma nel canto XV del lib.
II la scena del racconto è portata a Tadino, l’ antica città romana che
diede origine a Gualdo.

(2) Il lavoro pittorico è anteriore al 1439. Cfr. FaLoci PULIGNANI, Le
arti e le lettere alla corte di Foligno, in Archivio Storico per le Marche e per

l'Umbria, IV, 1887, p. 181. Gli affreschi meriterebbero di essere studiati
^

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IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO i 59

Quante volte — ci è dolce pensare — mentre l'alta in-
vetriata tremava, sibilando il vento, quante volte per l'ampio
salone avrà echeggiato una voce argentina, mentre i signori
tralasciavano per un momento il nobile giuoco degli scacchi
e anche i paggi leggiadri e le vezzose damigelle smettevano
le loro amabili occupazioni per tender l’ orecchio ai maliosi
racconti!

E’ il bacio di Lancillotto, è la morte di Tristano e Isotta,

è il pianto di Carlo Magno nella valle maledetta di Ronci-
svalle. E una lacrima, quasi limpida perla, avrà bagnato le
gote della novellatrice, mentre dame e cavalieri rimanevano
per un istante silenziosi e commossi.

Tempi scomparsi! L’ ideale cavalleresco che animò il
Santo meraviglioso di Assisi, è svanito. Nella mistica cit-
tadina rimane soltanto, muta testimone di quell’ epoca di
ferro e di gloria, la vetusta rocca feudale. E un sospiro di
rimpianto sale alle labbra, mentre lo sguardo pensoso
si sofferma a contemplare le mura corrose e dentellate della
fortezza o scende nella vallata a mirare le acque dei torrenti,
spumeggianti e fangose, quasi torbide delle memorie del
passato.

Mai più nelle piazzette fervide di vita delle gioconde e
rissose cittadine umbre, inerpicantesi su per i greppi dirupati,
si soffermerà il giullare a cantare di romanzo! Mai piü nelle
ardue rocche o nei castelli della verde pianura o nei palagi
doviziosi dalle bifore finestre le antiche aule risuoneranno
dei suoni patetici dell'arpa e della viola! Mai più nelle mat-

con cura. La maggior parte dei nomi e dei motti — a quanto ho potuto
eonstatare in una fuggevole visita — sono in antico francese, ma non man-
cano iscrizioni latine, versi volgari e interessanti graffiti. Si veda per ora
il magro cenno del Sarwr, Descrizione degli affreschi nel Palazzo Trinci in
Foligno (fasc. IX - XII dell'annata XIII del, Bollettino d'Arte del Ministero
della P. Istruzione). Monsignor Faloci Pulignani ha copiato tutte le scritte

.ed è sperabile che vorrà, quanto prima, pubblicarle.

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tinate di primavera si abbasserà il ponte levatoio per dare
il passo alle gioconde comitive di caccia, coi levrieri, i giri-
falchi e i falconi! Mai più i saloni istoriati ascolteranno le
lasse dei trovieri e le romanze dei trovatori! Mai più i giuo-
chi deliziosi, le novelle d’amore, le giostre, i tornei, il riso

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dei nani e dei buffoni, mai più!

PARTE SECONDA.

Il Romanzo e le sue fonti.

1. Il manoscritto. — 2. Gli elementi classici. — 3. La leggenda troiana e
la fondazione di Perugia. - 4. Rapporti con l’ Eulistea di Bonifacio
da Verona. — 5. Gli elementi cavallereschi. — 6. Le leggende aral-
diche di Corciano e di Perugia. — 7. I frammenti su Rinaldo da Mon-
talbano e sul Leone di Corciano. — 8. La data e la lingua. — 9, L'au-

tore e l’opera.

1. — Detriti di tradizioni classiche, accostati a deriva-
zioni dal ciclo carolingio e dal ciclo brettone, compongono
la tela di una serie di « conti » in antico dialetto umbro,
trascritti da c. (8r a c. 101r del codice Vaticano-latino
4834 (1). Uno dei « conti » fu edito dal D'Ancona e dal Mo-
naci nel 1880, in un raro opuscolo nuziale, dal titolo: Una

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(1) E un miscellaneo cartaceo, messo insieme da un raccoglitore umbro del

quattrocento. Ragguagli su questo codice puoi trovare in G. GALLI, I disciplinati
dell’ Umbria del 1260 e le loro laudi, Torino, 1906, pp. 33 - 34 (Suppl. n. 9 al

Giorn. storico della letteratura italiana) e specialmente in G. M. Monti, Un

laudario umbro quattrocentista dei Bianchi, Todi, 1920, p. 22, che dà una suc-
cinta tavola dei componimenti in esso raccolti. Gli studiosi hanno già

messo a profitto le laudi dei Flagellanti e dei Bianchi ivi contenute, non-

ché qualche poesia latina medievale. Ma c'é ancora da mietervi abbondante

I messe. Si veda pure Novari, « Lî Dis du Koc « di Jean de Condé ed il

Gallo del Campanile nella poesia medievale in Studi medievali, I, D11 - 512.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 61

leggenda araldica e l'epopea carolingia nell Umbria : documento
antico (1). In questa pubblicazione il Monaci manifestó il
desiderio di dare alla luce per intiero questo « curiosissimo
romanzo che narra le origini poetiche dell'Umbria », ma non
attuò il suo proposito, quantunque l’amico D'Ancona gli ri-
cordasse la promessa e lo spronasse a mantenerla (2). In
séguito il primo capitolo fu mandato in luce dal Gorra in
un lavoro giovanile (3), e altri brani furono editi dal dott. Giu-
stiniano Degli Azzi, per la parte che concerne Perugia, in
un pregevole articolo inserito in una rivista umbra (4), e dal
sie. Roberto Collesi, per la parte riguardante Corciano, in
un’ accurata monografia su questo comune (5); ma il maggior
numero dei « conti » rimase inedito e il testo del romanzo
può considerarsi ancora ignoto nella sua interezza.

2. — Il Romanzo di Perugia e Corciano (lo abbiamo inti-
tolato così per ragioni che saranno chiare in appresso) com-
prende due narrazioni ben distinte: la prima si riferisce alla
fondazione di Perugia e del castello di Corciano e alle gesta
dei loro primi abitatori (capp. I XXV); la seconda descrive
la conquista franca dell'Umbria compiuta da Orlando e da

(1) Pubblicato per le nozze Meyer - Blackburne, Imola, Tip. Galeati,
27 Novembre 1880. La prefazione con un riassunto dell’episodio fu ripro-
dotta nella nota. Antologia della critica letteraria moderna di Lure: MoRANDI.

(2) Le tradizioni carolingie in Italia cit. p. 12.

(8) Testi inediti di storia troiana, Torino, Loescher, 1887, pp. 260 - 262.
Vi ho notato molti errori di lettura: eglà parte corr. en quille parte ; una
orsa molto rocta corr. irata, da langue corr. de lungne; la decisione tra (e) i
Greci corr. la devisione tra ei grecie ; aiutare corr. avetare ; Soradino corr. Fo-
randano, ecc. I testi stampati dal Gorra in questa pubblicazione offrono una
base malfida al filologo e allo storico.

(4) Uu romanzo del Secolo XIV sulle origini OO dell’ Umbria, nel-
| Umbria, Perugia, a. IV (1901), pp. 97 - 102, 113 - 1i7; a. V. (1902),
pp. 1 - 4. :

(5) Memorie storiche e amministrative del comune di Corciano, Città di
Castello, Lapi, 1902, pp. XI - XIV, 2-4, 171, 185-195.

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62: M. CATALANO

Carlomagno (capp. XXVI-XLIV). Seguono due testi frammen-
tari, di materia estranea al romanzo, che esamineremo pure .
brevemente.

L'inecognito autore ci trasporta ai tempi antichissimi in
cui ha dominio la leggenda, quando i Greci, dopo il de-
cennale assedio di Troja, ebbero triste ritorno in patria. A
causa delle divisioni sorte per il Palladio consegnato da
Antenore ad Ulisse, soltanto trecento delle mille navi che
costituivano la flotta ellenica poterono toccare la Grecia e
l'Italia. /

Il principio del romanzo si collega perció alla leggenda
troiana medievale che ha per capostipite Ditti cretese e per
propaggini il Roman de Troie di Bénoit de Saint More e la
Historia troiana di Guido delle Colonne. Appunto in queste
opere si legge che Antenore affida ad Ulisse il Palladio. È
probabile anzi che la fonte diretta sia stata l’Historia troiana,
che ebbe in Italia una immensa diffusione, attestata dal
gran numero di manoscritti in cui quest'opera ci è perve-
nuta (1). Ma l’autore dei « conti » da Guido delle Colonne ha
preso soltanto le mosse: il resto della narrazione, costellato
di riferimenti locali, ha le sorgenti nella tradizione umbra,
letteraria e popolare, e nella fantasia dello scrittore. Sarà
opportuno riassumere, senza alcuna interruzione, la parte

. riguardante l'epoca antica e poi far seguire la ricerca delle

fonti e l'esame delle questioni che rampollano dall'analisi del
testo.

Appena giunto nell Umbria, là ove doveva sorgere
S. Lorenzo, cattedrale di Perugia, Ulisse fu assalito da una
ferocissima orsa che vinse in virtù della sua forza gigantesca.
Di poi, confortato da straordinarie visioni, si convinse di

(1) Gorra, Testi inediti di storia troiana cit., p. 262. La intemerata an-
ticlericale del cap. XVII ricorda l’invettiva contro i preti di Guido delle
Colonne. Il sacerdote Toasse del cap. XXV è pure personaggio dell’ Hi-
storia troîana.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 63

fermarsi in quel luogo per fondarvi una città che per la vi-
sione avuta e in ricordo della sua vittoria sull'orsa fu chia-
mata Peroscia (= Per-orsa).

Del séguito di Ulisse faceva parte il troiano Coragino,.

suo parente per parte di donne. Un giorno l'Itacense gli fece
comprendere che non intendeva continuare ad ospitarlo, per-
chè il castello, che aveva innalzato, era destinato ad albergare
la sola sua famiglia e non quella di altri. Adontato per le
pungenti parole, la mattina seguente Coragino coi suoi com-
pagni abbandonò Ulisse, dirigendosi verso ponente. La sera,
a metà strada tra Perugia e il lago Trasimeno, giunse sul-
l’altura ove oggi sorge Corciano. Piacque ai troiani la loca-
lità, attraente per bellezze naturali, adorna di splendida ve-

getazione, ricca di selvaggina e confortata da ottima aria..

Misteriose visioni sopravvenute durante la notte li convin-
sero che in quel luogo dovevano eleggere la loro seconda
patria e perciò nei giorni seguenti spianarono la cima del
colle, fabbricarono le mura, il castello, il palazzo per il loro
sire Coragino, molte case di abitazione e scavarono, nella
roccia un pozzo profondo trenta piedi, dal quale ottennero
acqua fresca e copiosa.

Alla contentezza generale faceva eccezione Vivante, fra-
tello di Coragino, cui spesso pungeva la nostalgia della patria
perduta, nonchè l’amaro ricordo di Priamo e di Ettore e degli
altri eroi caduti per difenderla. Per scacciare la malinconia
soleva egli andare a caccia in compagnia di Forandano, aio
di Coragino, servendosi di cani e leoni ammaestrati, condotti
da Troja.

In una di queste escursioni Vivante e Forandano giun-
sero sulle rive del lago Trasimeno. Mentre prendevano diletto
nel contemplare la distesa delle acque, furono scoperti dagli

abitanti di un’ isola del lago, che inviarono tosto incontro a.

loro una barca per interrogarli. Forandano, sapiente cono-
scitore del latino, rispose: — Siamo troiani che andiamo alla

ventura. — Il naviglio ritornò, raccontando la prestanza dei

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nuovi venuti e la meravigliosa bellezza di Vivante. A tali
novelle il conte del Lago, signore dell’isola, punto dalla cu-
riosità, si fece condurre alla riva, recando in dono molto
pesce a Vivante e a Forandano, che ricambiarono le genti-
lezze regalando abbondante cacciagione.

Intanto si accentuarono le discordie tra i greci di Ulisse
e i troiani di Coragino. Vivante, trovandosi a caccia sul
Monte Malbe, s° incontrò con i perugini, che si erano recati
in quel luogo con lo stesso suo scopo. Sorse una contesa e
per evitare ulteriori attriti fu tracciato il confine fra i ter-
ritori di Corciano e di Perugia, divisione che durava ancora
ai tempi dello scrittore. |

In séguito Vivante e Forandano, accompagnati da un
esperto falconiere e da alcuni famigli, si recarono al lago
con un cammello, carico di vivande e di buon vino, e con-
ducendo leoni e falchi addestrati alla caccia. Il conte li ac-
‘colse onorevolmente e, sapute le differenze che avevano con
Ulisse, promise d'interporsi per rappacificarli. Dapprima si
assicuró che Coragino non era riluttante a deporre l'inimi-
cizia, e poi si recó a Perugia, ove Ulisse gli presentó i prin-
cipali baroni della sua corte: Antemone che aveva eretto il
suo castello sul monte di Porta Sole; Landorno, fondatore
del castello di Landorno, oggi. Landone; il Maestro della
Torre, discendente di Nembrotte ed edificatore delle torri
perugine. Ulisse fece visitare all'ospite la contrada e si mo-
stró disposto a riconciliarsi, dolente del caso occorso per
futili motivi. E per suggellare la pace promise di far co-
struire in Perugia un castello, affinché Coragino lo potesse
abitare a suo piacere. La pacificazione completa si fece in
autunno, a Perugia, al tempo della vendemmia, e fu celebrata
‘con grandi feste e ricche imbandigioni.

Ulisse per adempire la sua promessa fabbricó,non uno,
ma due castelli nella contrada del Verzaro che si estende
verso Corciano: uno doveva servire per il conte del Lago
e l’altro per Vivante. Le nuove costruzioni furono erette
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 65

‘sollecitamente e inaugurate in primavera con sacrifici all'uso
pagano. In questa occasione fu per la prima volta dato il
nome di Peroscia al complesso degli edifici costruiti intorno
al castello di Ulisse.

Prima di separarsi i due capi discussero amichevolmente
sull’ origine del nome di Corciano. Secondo Coragino indicava
che era bello e forte; secondo Ulisse era stato cosi denomi-
nato per tre ragioni: perché, trovandosi il castello tra Pe-
rugia e il lago, era come il core in mezzo al corpo umano;
perché il suo signore si chiamava Coragino ; e.perchè ancora
era stato costruito a causa di un cruccio (coroccio) sorto fra
loro due. Coragino ritornò al suo castello, soddisfatto della
bella etimologia (1). e

Ma alla gioia succedette, di li a poco, immenso cordoglio.
Tormentato da una eagliarda febbre, guadagnatasi a caccia,
e dalla sua inguaribile nostalgia, il bel donzello Vivante mori,
non ostante le cure amorose dei parenti. Il suo corpo, dopo
magnifici funerali, fu seppellito nel tempio maggiore.

Il conte del Lago ebbe due figli: Achino, fondatore di
Aquino, e Novizio, erede della contea paterna e giovane bel-
lissimo, che s'innamoró di Candida, figlia di Coragino, senza
averla mai veduta, solo per averne sentito decantare le bel-
lezze. La madre della fanciulla avrebbe preferito maritarla
a un troiano, ma Candida non volle saperne per non vivere
in continua tristezza e desiderò unirsi a Novizio, di cui per
fama si era innamorata.

Prima che si sposassero, sopravvenne una grave mor-
talità che spense Coragino con la consorte Solina, il conte,
la contessa, Ulisse e molti troiani. Dopo un anno fu celebrato
il matrimonio: gli sposi vissero più di cento anni ed ebbero
un figlio di nome Coragino, dal quale discese la stirpe dei
signori di Corciano.

(1) Secondo il cod. 1956 della Comunale di Perugia il nome di Corciano
deriverebbe invece da « Crano figliolo de Iano che lo edificò » (c. 51 v).
Beato chi ci crede!

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Qui termina la prima parte del romanzo.

3. — L'anonimo autore attinge certamente il racconto
ad una compilazione più antica, alla quale allude con le frasi:
« dicie lo conto » o « dicie l'autore » o « secondo che pone
lautore » e simili. Né si creda che queste siano citazioni
scherzose, come quelle di Turpino nei poemi cavallereschi:
il novellatore si riferisce con precisione a un libro dal quale
desume gran parte, se non tutta la trama, della narrazione
e, d' altronde, si mostra troppo ingenuo perché lo si possa
credere capace di fare dell'umorismo.

Quale sia quest'opera, non sappiamo, né forse sapremo
mai, ché dev'essere andata perduta nel naufragio dell'antica
letteratura umbra à causa dellanarchia imperante nel se-
colo XV. Tuttavia tale scomparsa non infirma le nostre illa-
zioni, essendo manifesto, come risulta da molti indizi, che
la forma attuale del romanzo conserva la sostanza della
redazione scomparsa. L'autore del testo attuaie amplifica,
riassume, abbrevia, ripete pedissequamente, ma di proprio
aggiunge ben poco, perché alla fonte allude in ogni capitolo,
e spesso più volte nello stesso capitolo, citando anche ‘la
frase precisa che trova nel modello (1).

La materia della prima parte dei « conti » ha riscontro
nei testi che celebrano la fondazione di Perugia per opera
dei troiani.

È noto che il cristianesimo e le invasioni barbariche non
riuscirono à spegnere le memorie del mondo classico. Fra
le tradizioni che ebbero vita rigogliosa nell'età di mezzo, la

(1) Che si ometta notevole materia della fonte é chiaro dal capitolo I,
nel quale si legge che Ulisse ebbe « molte visione quale qui non se
ponono ». Inoltre si ponga mente al cap. XXVI, ove si dice: « del quale
(Coragino) dicie l'autore che desciero molte altre, quale tutte qui non
ha scritto». Nel cap. VI, per significare che la malinconia di Vivante ge-
nerava pianto e tristezza in chi lo avvicinava, si riferiscono le stesse pa-
role della redazione più arcaica: « e veramente - secondo che dicie l'au-

tore - esso parea tutto autore de piante ».
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO

67

guerra di Troja occupò sempre un posto cospicuo. Le leg-
gende del ciclo troiano, alterate e deformate, diedero argo-
mento ad un numero ragguardevole di produzioni latine e
volgari: gli eroi del famoso assedio diventarono popolari, an-
che nelle classi più indotte. Basterà ricordare i celebri versi

danteschi in cui la vecchia è rappresentata nell'atto, mentre
fila, di raccontare le favole

De’ Trojani, di Fiesole e di Roma.
(Par. XV; 126):

Sull'esempio di Roma, molte altre città italiche si van-
tarono di essere state fondate dai fuggiaschi sudditi di re
Priamo. Anche sull’origine di Perugia si almanaccò parecchio.
La sua fondazione fu attribuita a vari favolosi personaggi
biblici, romani, greci, troiani, etruschi, accuratamente elen-

cati dagli storici secentisti. Furono tirati in ballo, quali ca-

postipiti dei perugini, Noè, Giano, Perseo, Perusio console
romano, Perusio troiano, Pruso o Peruso fratello di Diomede,
Vibio acheo, Priso greco, l'etrusco Tirreno ed altri ancora,
ma — com'é naturale .— per nessuno di essi si potè fornire
una prova sicura e valida (1).

A noi interessano in modo particolare le leggende che
fanno capo ad Euliste troiano e al greco Ulisse.

È probabile che in origine questi due personaggi non
dovessero formarne che uno solo. Di tale sdoppiamento fa
fede il novellatore dei « conti », che nel capitolo I dà per
greco Euliste o Ulisse, identificandolo col famoso Ulisse, men-
tre in séguito, a più riprese, mostra di credere che fosse
invece troiano (2).

(1) Cfr. CrarTI, Delle memorie annali et istoriche (sic) delle cose di Perugia,
ivi, 1638, p. 3 e segg.; Pennini, Dell’ Historia di Perugia, Venetia, 1664,
p. 1 e segg.

(2) Nel cap. VII Vivante, discorrendo col conte del Lago, gli descrive
« la bellegga ... de Oliste e d’altre troiane ». Nel cap. XIII il tro-

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68 M. CATALANO

Francesco Maturanzio, cronista e rimatore perugino del
quattrocento, in certi pataphi o epitaffi, che servirono per la
galleria’ di uomini illustri dipinti in una gran sala del palazzo
Baglioni, ritiene Euliste nativo di Troja (1).

Riferiamo i disgraziati versi, senza tentare di correggerli,
come si leggono nel cod. 562 della Biblioteca Comunale di
Perugia, sul verso della c. 143:

El pataphio 4e Eulisteo hedificator de Perosia, n. 1.

Eulistes troyano, inelito e forte,
So che partito dal troyan valore,
Dopo le guerre e tante acerbe morte
Che foro i greci sopre a mio signore,
Italia volse per divina sorte
E fui de questa el primo fondatore.
Peruscia la chiamai nel monte orc,
Che fo poy matre de tutti costoro.

El pataphio de la ciptà de Perusia, n. 2.

Fra le italiche eletta a tanto honore
Peruscia eulistia io son ch’è digna:
Ma non (corr. m'han) fatta i mey figlioli in gran valore,
Ove scientia e vertü d'arme regna.
De Troya venne el primo fondatore
E ney mey tenpi so stata una insegna
D'Apollo e Marte sopra al monte Toro,
Como dimostrano l’opre de costoro.

iano Coragino, rivolgendosi al medesimo conte, parla di Ulisse come di suo
conterraneo : « Scire, per buona fede io non deggio volere biene a Uliste,
perchè io estette e venne con esso puoie che fommo fuore de nostra
terra ». Anche nel cap. XVIII si ha un'allusione a « Euliste e gli altre
troiane ».

(1) Sul Maturanzio v. VermiGLIOLI, Memorie per servire alla vita di Fran-
cesco Maturanzio, pp. XXVI - LIV del Saggio di memorie istoriche civili ed
ecclesiastiche di AnnisaLe Mamiorri (Perugia, 1806) e dello stesso VERMIGLIOLI
le Biografie degli scrittori perugini (II, 109). La cronaca del Maturanzio è
edita nell'Arch. stor. italiano, XVI, parte IIa.
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IL ROMANZO EI PERUGIA E CORCIANO 69

Nel cod. 110 della stessa Biblioteca, a c. 23, un ano-
nimo raccoglitore di memorie storiche locali, menzionando i
dipinti del palazzo Baglioni, ragiona che fra le immagini dei
più famosi capitani perugini vi era anche quella di « Ulisse
troiano ».

Non sarà fuor di luogo indagare come mai l'itacense
Ulisse si sia trasformato nel troiano Euliste.

In talune varietà dell antico dialetto umbro, e special
mente nel perugino, si sviluppava spesso un'« e» dinanzi ad
alcuni vocaboli. I « conti » ne offrono abbondanti esempi. Que-
sta. « e » talvolta è una semplice copulativa, usata a spropo-

sito e riunità nella grafia con la parola seguente; talvolfa é
adoperata per eufonia dinanzi a s + consonante (es. estanco,

A

espirto, espasso, escacche, estantia, esposa, esposo, escampo,
eschiere, esventuraia, esciende, esconciamente, escudiere, ecc.);

$.

talvolta, come nel caso nostro, è un accrescimento per pro-.
stesi ed avviene dinanzi ai nomi propri. Così troviamo un
e Vivante nel cap. XIII, due volte eChandida nel cap. XXIV,
eChornaletto nei capitoli XXXVIII e XL, e molte volte eUliste
per tutta la prima parte del romanzo, nella quale la grafia

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B.
1
M
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|

di questo nome oscilla continuamente fra Uliste, Oliste ed
eUliste o Euliste (1).

Misteriosa appare la dissimilazione della ss in st. Forse
vi avrà influito il nome classico Euriste, appartenente alla
leggenda di Ercole, riferita nelle compilazioni storiche me-
dievali e non ignota ai perugini, che ritenevano Euliste pro-
nipote di Ercole (2).

Come poi Ulisse, modificato in Euliste, sia diventato un
eroe troiano, è facile comprendere, ricordando che molte città

(1) Altri esempi di prostesi: araquistare (XV), aperdere (XLII). Nelle

E insi

CHEER. CIS “dea!

laudi umbre è frequente il caso in cui un’a fiorisce dinanzi al prefisso verbale
re-, spesso con la perdita delle. Cfr. GaLLi, Laudi inedite dei disciplinati
umbri, Bergamo, Ist. italiano d’arti grafiche, 1910, p. 9.

(2) GaLLenga SruanT, Perugia, Bergamo, Ist.ital. d'arti grafiche, 1911, p. 9.

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70 M. CATALANO

italiche amarono derivare i loro natali dai principi troiani,
sia modellandosi sull’esempio illustre di Roma, sia per la fama
che ebbero i troiani nel medioevo di prodi e leali guerrieri.
Dai principi greci di ritorno dalla distruzione di Troja si van-
tarono invece di essere fondate — com'é naturale — le città
della Magna Grecia.

4, — A detta del Pellini (1), il più antico scrittore che
ricordi il troiano Euliste come fondatore di Perugia, sarebbe
Paolo Diacono, ma per quanto io abbia cercato la celebre
storia dei Longobardi, non sono stato capace di rinvenirvi
alcuna menzione di tal nome.

Nelle fratricide lotte, nelle risse feroci e frequenti tra
città e città, nei saccheggi e negli incendi delle soldatesche
di ventura, è perita gran parte del patrimonio intellettuale
umbro del medioevo. Pure, in tanto naufragio, si è miraco-
losamente salvato un poema latino che canta in esametri la

. storia di Perugia dai tempi favolosi al secolo XIII.

Risulta da autentiche memorie municipali che un Boni-
facio da Verona, astrologo e poeta, nel 1293 fu incaricato di
compilare « librum antiquitatum et negotiorum comunis Pe-
rusii ». Bonifacio scrisse l'opera in versi, intitolandola Eulistea
e ne ebbe guiderdone, ma, forse perché i suoi esametri erano
difficilmente intelligibili, si volle che il poema fosse voltato
in prosa (2). Il codice membranaceo originale contenente
l'Eulistea scomparve dall' Archivio comunale nel secolo XV

e perció l'opera di Bonifacio rimase ignota agli storici pe-

rugini, finché in tempi recenti nella biblioteca dei conti Co-
nestabile Della Staffa se n'é rinvenuta una cattiva copia, esem-
plata « su carta bambagina da amanuense vissuto al finire

(1): 0p: 01055 p.:2.

(2) Le searse notizie su Bonifacio da Verona e sulle sue opere sono
state raccolte dal VermieLIoLI, Degli storici perugini ecc. nel Saggio cit. del
Marrorti, a p. VI-XII e dal MazzarintIi, Di Bonifacio da Verona autore del-
l’ Eulistea, in Boll. della R. Dep. di storia patria per U' Umbria, II, 1896, pp.
57-561.
IL ROMANZC DI PERUGIA E CORCIANO (1l

del secolo XIII ». Da questo manoscritto furono estratti e
pubblicati i soli brani che avevano una tal quale importanza
storica (1).

Fra le parti condannate all'oblio rimase quella sulla
fondazione di Perugia. Il Degli Azzi suppose che il nostro
romanzo potesse « aver avuto delle attinenze, utili a riscon-
trarsi, colla narrazione dell Eulistea, e ... fors' anche esser
desunto da questa o rappresentasse comunque un rifaci-
mento » (2), ma non gli riuscì di poter aver visione del poema.
Noi, piü fortunati, in grazia della cortesia dei conti Conesta-
bile Della Staffa, abbiamo avuto sott'occhi questo singolare
documento, che é la piü antica delle cronache perugine e ne
daremo contezza per la parte che ci interessa (3).

Il poema é diviso in nove libri, dei quali il primo canta
la fondazione di Perugia. È opportuno dare come saggio il
principio dell'operetta:

Rex fuit ex Daneis trabeatus et yndole clara
Non minus et lingua fulgens uti censis Ulixis
Progenieque sua priscis natalibus ortus,

Eulistes eui nomen erat, post dirupta longe
Pergania dardanicum qui post et tempora multa
Postque annos mangnos Saturni postquam potentis

(1) Nella raccolta di Cronache e storie inedite della città di Perugia pub-
blicata nell’Archivio storico italiano, 1850, XVI, parte 1*, pp. 1-52.

(2) Art. cit. nell' Umbria, 1902, p. 4.

(3) Una succinta descrizione del codice. È un cartaceo del sec. XIII
‘ex. - XIV in., che misura mm. 2380X151, e porta il n. 29 della raccolta.
I primi due fogli presentano una grave laceratura che ha ‘offeso lo scritto.
Consta di 54 carte, ma la numerazione conta 37 pagine per la redazione
in prosa ein séguito altre 70 pagine per il poema che é preceduto da un
proemio in prosa. Le iniziali dei capitoli sono in bianco con la letterina:
i versi sono disposti ad una colonna, in numero variabile da 30 a 34 per
pagina. Il poema termina a p. 69: « Explicit Eulistea sive liber Eulystidos
bonifatij veroney ,ae electi principis », ma a p. 70 si leggono ancora due

.distici che sono stati pubblicati. M. CATALANO

Advenctum Enee prius quam Roma fuisset
Inciperent eiusque lares et menia starent,
Venit in Ytaliam, fatis agitantibus illum.
Hic patrie primus perusine struetor et urbis
Fundatorque fuit et ctr sic illa vocata
Urbs fuerit refert Clyo tot nuntia nostra
Inferius veluti testatus fama vagatrix.'

Da questi barbari versi, deturpati per giunta dall'igno-
ranza del copista, si puó giudicare il valore letterario del
poema che è scarsissimo. Sarà bene perciò limitarci a rias-
sumere quel tanto che é necessario.

Secondo il poeta l'eroe Euliste della stirpe di Ulisse si
recò nell'Umbria per fondarvi una città, nella quale voleva
stabilirsi. Mentre era a caccia, dovette sostenere una lotta
accanita contro un orso che riusci ad abbattere con gran
fatica. Di poi sostenne vittoriosamente gli assalti .di un'orsa,
dalla quale deriverà il nome di Perugia.

Eulistes hie urbem ergoque nomen ab ursa
A'@cipieti ti...

La duplice pugna renderà l’eroe famoso per i secoli av-
venire. Euliste fece poi abbattere le selve e costruire le mura
della città. L'avventura è descritta con abuso di immagini e
di frasi retoriche.

La prosa non aggiunge alcun particolare nuovo ed è
ancor più povera degli esametri. Ci limitiamo a riportare
l’inizio che sarà sufficiente ragguaglio di tutta la redazione:
« Memini quod perusie fundator vocatur Eulistes. Memini
quod ex regione danae processit Eulistes. Memini quod ex
ulixe scemate (— stemmate) surrexit Eulistes. Memini quod
perusiam nomine vocavit Eulistes ... ».

. Secondo Bonifacio, Euliste non era troiano, ma greco.
A prova riferiamo il distico che chiude il poema:

Nobilis Eulistes, Perusine conditor urbis,
Contra Troianos bella multa tulit.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO | 13-

Il Veronese attinse a opere e documenti, oggi scomparsi,
che ai suoi tempi erano serbati nell’archivio del Comune.

Senza più oltre dilungarci è chiaro che tra i « conti »
volgari e il poema latino non vi è altro rapporto che il com-
battimento di Euliste con l’orsa e l'etimologia di Perugia,
troppo poco per ammettere una diretta parentela fra i due
testi.

In conclusione il novellatore, oltre che dall Historia tro.
iana di Guido delle Colonne, attinse da opere composte ante-
riormente al secolo XIV, sull’origine greco-troiana di Perugia.

I dissensi tra Coragino e Ulisse, la fondazione di Cor-
ciano, l'intervento del conte del Lago, le visite, i ricevimenti,
la morte di Vivante e i suoi funerali, lo sposalizio di Novizio
e Candida, non trovano riscontro in altri testi ed è molto
probabile che siano parto della fantasia, d'altronde non molto
fervida, dell’autore.

5. — Alla fondazione di Perugia e di Corciano, intessuta
di tradizioni greco-troiane, il narratore congiunge il raccouto
della conquista franca dell'Umbria, saltando con disinvoltura
i sedici o diciassette secoli che vi sono frapposti.

Ai tempi di Carlomagno Perugia era posseduta dalla
Polzella Prosemana, giovane saracena discendente dal troiano
Landorno. Il re Orgoglioso di Persia, signore di Amelia e del
ducato di Spoleto, approfittando della circostanza che la donzella
era rimasta orfana e che suo fratello Golia non era in età
di difenderla; la chiede in isposa e appoggia la domanda
con la mostra del suo poderoso esercito. La Polzella, non
potendo resistergli con la forza, finge di acconsentire, ma
pone per condizione che l'Orgoglioso le debba portar prigio-
nieri due paladini di Carlo Magno. Il guerriero accetta, si
reca nell’Alta Italia, ove si trovava il campo francese, sfida
i paladini, prende prigioni il figlio stesso del re Carlo e-il
marchese Oliviero, e con essi ritorna a Perugia. Ma la Pol
zella s'innamora di Oliviero e, saputo che Orlando doveva

venire a liberarlo, chiede all’ Orgoglioso che le nozze siano.

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(4 M. CATALANO

differite di quindici giorni col pretesto di celebrare in onore
del promesso sposo cacce e feste sorituose.

Intanto Orlando è sulle tracce di Oliviero. Quando è
presso il castello di Corciano, incontra un discendente del tro-
iano Coragino di nome Cornaletto che lo domanda dell'esser
suo. Risponde Orlando che era un cavaliere francese in cerca
di avventure. — Sei poco saggio — gli dice Cornaletto — a
prender questa via che conduce a Perugia, ov'é un terribile
signore, l’Orgoglioso di Persia, dal quale saresti morto o fatto
prigione. Egli ha già preso due paladini di Carlo e, se non

fossi disarmato, ti impedirei di correre follemente alla morte.
— Il Conte si compiace dell’ardire del giovinetto e pensa di

convertirlo aila fede cristiana. — Va pure ad armarti — gli
risponde — chè io ti attenderò. — Cornaletto si veste delle
armi e monta ‘a cavallo. Orlando dice al donzello: — Io ti

prego umilmente che ti faccia cristiano ; se acconsenti, verrai

in Francia con me, ove avrai una bella donna per isposa e
feudi e castella. — Ma Cornaletto rifiuta con isdegno e rivolge

al suo indirizzo parole insolenti: — Sei buon predicatore —
gli dice — come lo è ogni francese. — I due cavalieri si scon-

trano e Cornaletto cade a terra tramortito. Riavutosi, rende
onore al paladino e lo ospita nel castello. La notte, da buoni
cavalieri antiqui, i due prodi dormono insieme: il giorno se-

guente Cornaletto viene battezzato e fatto cavaliere da Or-
lando che gli dona l' arme sua, il famoso quartiere, insegna

che rimane ancora al comune di Corciano.

Di poi i due compagni muovono alla volta di Perugia
per liberare Oliviero. Saputo del loro arrivo, l Orgoglioso
‘esce dalla città per combatterli. Orlando astutamente mostra
di dubitare che due paladini siano prigioni in Perugia e in-
duce il re saraceno a mostrarglieli., Appena Oliviero e il figlio
dell’imperatore son condotti fuori delle mura, d’un balzo Or-
lando s'interpone fra essi e la porta. — Se tu vuoi ricon-
«durli a Perugia — dice all’ Orgoglioso — dovrai vincere an-
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 75

che me — e comanda a Cornaletto che stia ben in guardia
dei prigioni finchè durerà la battaglia.

I cavalieri si disfidano con oltraggiose parole, rompon
le lance sugli scudi e pongono mano alle spade. Dopo lunga
tenzone Orlando ha il vantaggio. — Arrenditi — dice il cor-
tese paladino — e fatti cristiano. — Ma l’Orgoglioso vuol
piuttosto morire che cedere le armi, perchè la Polzella stava
a guardare il duello dalle mura. E Orlando fende la testa al
saraceno e libera i prigioni.

Quando la Polzella, che aveva il cuore facile ad entusia-
smarsi, vede l'esito dello scontro, vuol lasciare Oliviero per

Orlando. Ma Oliviero si mette a ridere: — Perdi il tuo tempo
— dice alla damigella — Orlando è puro e non ha mai vo-

luto toccar donna. —

I perugini sono battezzati e la città prende per arme il
grifone che era l' insegna di Oliviero. Splendide feste sono
celebrate in onore dell'esercito francese. Carlo conquista tutto
il ducato di Perugia e fa battezzare la valle di Spoleto fino
a Roma. Cornaletto segui i Francesi e andò a combattere in
Lombardia ove mori.

L'autore menziona gli autori che gli han fatto da guida
per questa parte del romanzo. Sono due: « lo livero ro-
mano » e « lo livero brettone » (capp. XXV, XXVI) ché
l'Olivero romano è una creazione del Degli Azzi e ha origine
— come facilmente si comprende — da una falsa lettura (1).
Per la morte dell’ Orgoglioso di Persia il novellatore riferi-
sce e discute gravemente le differenti versioni delle fonti
(cap. XL): il che conferma la molteplicità delle opere, dalle
quali egli attinge.

Il racconto della conquista franca di Perugia riposa so-
pra un motivo comune ai romanzi cavallereschi.

Un re pagano s' innamora di una principessa, pure pa-
gana, e la domanda in isposa. Respinto, minaccia di muo-

(1) Art. cit. nell’ Umbria, a. IV, p. 113.

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è 76 M. CATALANO

ver guerra o la fa realmente, finchè ottiene con la forza
il consenso alle nozze. La giovinetta cerca di mandare per
le lunghe il matrimonio, sperando che giunga un salvatore.
Questi compare sotto le sembianze di un cavaliere cristiano,
che prende le difese della donna, uccide in singolar ten-
zone il pagano e, assumendo il comando delle schiere citta-
dine, sconfigge l' esercito assediante. Si capisce che la prin-
cipessa s'innamora del suo prode campione, che di solito
battezza tutto il regno.

Narrazioni simili si leggono nelle storie di Buovo d'An-
tona, nell’'Entrée d'Espagne e nelle sue versioni lombarde e
toscane. Con queste anzi le attinenze sono piuttosto sensibili.

Vi si narra infatti di una principessa che un re sara-
ceno vuole sposare con la violenza. Niuno, nemmeno il fratello
di lei, ha la forza di impedire il matrimonio. Orlando, ramingo
in cerca,di avventure, capita sconosciuto in quelle contrade e
vince l'Amostante di Persia, che forse non casualmente ri-
corda l Orgoglioso di Persia del romanzo umbro. La giova-
netta liberata s’ innamora del suo salvatore, ma deve accon-
tentarsi di un altro barone cristiano. Anche qui i pagani
vengono battezzati.

Avventure amorose di Oliviero, che non è sempre il sag-
gio paladino della Chanson de Roland, si leggono in parec
chi poemi. Si rammentino le sue prove con la figlia dell’ im-
peratore di Costantinopoli, narrate nel Voyage de Charlema-
gne, episodio che fu copiato dalla redazione in prosa della
Spagna, nota sotto il nome di Viaggio di Carlo Magno. Gli
alti fatti di dama Rovenza, che tiene prigioniero Oliviero e
s innamora di lui, sono raccontati ampiamente nelle Storze
di Rinaldo in prosa. Nei romanzi brettoni si trovano pure
esempi di damigelle che, per non sposarsi contro voglia, im-
pongono ai loro pretendenti imprese difficilissime con la spe-
ranza che muoiano nel tentare di compierle. Citeremo la
storia di Febus, narrata, oltre che nel Eram edem a anche nel
primo cantare dl Febusso è Forte.
IL ROMANZO PI PERUGIA E CORCIANO "T"

Notevole nell episodio cavalleresco del nostro romanzo
l intromissione dell'elemento brettone nel ciclo carolingio. I
personaggi sono, é vero, i paladini di Francia, ma il senti-
mento che li anima, é quello dei romanzi della Tavola Ro-
tonda. Oliviero e Orlando vanno appunto in cerca di avven-
ture: l'Orgoglioso muore, non per difendere la sua fede, ma
per gli occhi della bella Prosemana. L'episodio di Cornaletto
è desunto dai romanzi brettoni, ove si trovano spesso guer-
rieri à guardia di un castello che impediscono il passo ai
cavalieri erranti e li sfidano a tenzone singolare (1). Anche
l'ospitalità concessa al nemico vinto o vincitore è costumanza
dol ciclo arturiano.

Elementi brettoni, in verità, erano stati già osservati
nel Morgante e nella sua fonte 1° Orlando. La lunga digres-
sione delle avventure di Orlando in Persia nell’ Entrée d'E-
spagne e nelle sue propaggini in rima e in prosa è pure
ispirata dai romanzi d' avventure. I nostri « conti » vengono
così a dare la prova che la fusione del ciclo carolingio e
del brettone era stata, prima del Boiardo, largamente ten-
tata, più di quello che si è creduto.

6. — Alla tela generale, desunta — com’ è da credere —
dai poemi e romanzi cavallereschi toscani (2), l’autore ag-
giunge parecchio di sua invenzione. L'azione, invece di svol-
gersi nelle solite regioni fantastiche dell’ Asia e dell’ Africa,
ha luogo in paesi geograficamente determinati: Perugia e
Corciano, le cui tradizioni sono con accortezza innestate nel-
l’ operetta.

(1) A Cornaletto Orlando risponde che va « procurando sua ventura».
Anche nella prima parte del romanzo Vivante dice al conte del Lago:
.« Semo troiane che andamo ala ventura» (cap. VII).

(2) Ai riscontri additati si aggiunga che i nomi di due principali per-
sonaggi : l'Argoglioso (Orgoglioso) e la Prosemana (Prossimana) sono voca-
boli dell’antico toscano. Il primo si trova in molte chansons de geste, in
romanzi del ciclo d’Artù ( Orgueilleus) ed anche nel cantare toscano Gibello

(Argogliosa, principessa di Genudrisse).

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M. CATALANO

L'anonimo umbro narra diffusamente l'origine dell' inse-
gna comunale di Corciano che sarebbe connessa alla dimora
di Orlando nel castello. A nostra notizia egli é il solo che
racconti questa leggenda.

Ma del grifone perugino si hanno ragguagli copiosi. Il
favoloso animale, scolpito in pietra, adorna, insieme col leone
guelfo, le porte del Palazzo dei Priori ed è effigiato nella
sala del Cambio e nelle stampe degli Statuti.

Secondo gli scrittori locali, tale emblema sarebbe colle-
gato alla fondazione della città, essendo il nome di Perugia
derivato da Perus, che vuol dire griffone, uccello venerato
dagli Scizi e degli Armeni (1). Le memorie piü antiche dei grifi
perugini non vanno oltre il secolo XIII, perché il palazzo
comunale fu cominciato a edificare nel 1293 e Y Eulistea di
Bonifacio da Verona, in cui frequentemente si ricordano il
grifo e i grifoni per indicare Perugia e i suoi abitanti, fu
composta nel 1294. In quest'opera si trova già menzione
della leggenda che legava l origine del grifone alla venuta
di Oliviero in Perugia: « Habet antiqua Oliverius tua ex
Gallie pugnatoribus menia ... Griphonis (Griphones ?) et arma
Oliverii prioris sanguinitatis linea contrasserunt ab Euli-
ste » (2).

Inoltre nella cronaca del cod. 341 della Comunale di
Assisi, composta verso il 1335, si legge la seguente memo-
ria in cui la leggenda araldica di Perugia è chiaramente
espressa: « Traditur etiam, antiquorum assertione, quod O-
lyverius palatinus, intrans Perusiam, ita a Perusinis hono-
ratus et adceptus fuit et dilectus et ita ipse dilexit eos quod
insegnia armorum eius in sui memoriam amicitie ex tunc
Perusini receperunt » (c. 69 v).

In processo di tempo le testimonianze sulla dimora di
Oliviero a Perugia e sulla sua liberazione per opera di Or-

(1) Cesare CriIspoLTI, Perugia augusta, Perugia, 1648, p. 8.
(2) Pag. 18 della redazione in prosa.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO Jo

lando si fanno più copiose e complete. Una breve memoria
anonima, che ha con i « conti » strette attinenze, racconta

la venuta a Perugia di Orlando scortato da un angelo per

liberarvi una bella donna e il compagno Oliviero prigione
di un crudele pagano. Per solennizzare tale avvenimento fu

eretta, là dove il paladino aveva innalzato il suo padiglione,

la chiesa ancora esistente di S. Angelo (1). X
Un'altra memoria, conservata nel cod. I, 110 della Co-
munale di Perugia, a c. 51, riferisce che, quando fu edificata
la chiesa di S. Angelo, apparve un angelo a dire che Dio
non la voleva maggiore dei padiglione di Orlando. Ritengo
che la leggenda sia nata a causa della costruzione circolare,
simile a un padiglione, della chiesa, che è, d'altronde, d'ori-
gine bizantina. i

.. Una cronaca di Perugia dal 1454 al 1541 riferisce che al

6 dicembre 1495 « s'alamó la prigione di Orliviere paladino.

li a la Porta della Penna » e narra con abbondanza di par-
ticolari la ragione di tale denominazione. Il racconto del
cronista è sostanzialmente identico al romanzo.

Nell’umile cronaca Perugia, abitata da cristiani, si trova,
come nei « conti », sotto la signoria di una donzella. Un
anonimo re pagano, che vuole la dama e la città, vi pone l'asse-
dio, finché, dopo molti anni, riesce ad espugnarla. La giova-
netta promette di sposarlo se egli riesce a impadronirsi di « un
paladino fortissimo ». Il pagano vince Oliviero in combatti-
mento singolare e lo chiude in una prigione di Perugia. Quivi
il paladino riceve la visita della donzella, alla quale racco-
manda di dar nuove di lui a Orlando che verrà certamente
a liberarlo. Il nipote di Carlo, avvertito della prigionia del
l’amico, giunge con un esercito ed innalza il padiglione nel
luogo ove poi sarà edificata la chiesa di S. Angelo. Orlando
uccide il pagano e libera dal carcere Oliviero che dona ai

(1) G. Mienmi, Le tradizioni carolingie nell’ Umbria, Perugia, Tipogr.
Umbra, 1885, p. 9-18 (estr. dal giornale « La Provincia dell’ Umbria ».)
80 à M. CATALANO

perugini la sua insegna del grifone. Viene innalzata una
chiesa in onore di S. Angelo « perché Orlando disse che
l'angelo l'havea mandato a Perugia per liberarla dalle mano
di quel Pagano; e cosi il Vescovo fece edificare quella
chiesa in modo d'un padiglione, et ogni domenica ci an-
dava con tutti li suoi canonici in processione, e ci pose l'in-
dulgentia; e poi quella mori e rimase la città libera » (1).

Riteniamo che il racconto primitivo delle gesta dei pa.
ladini nell Umbria si sia modificato e alterato in modo da
dare origine a due versioni: una rappresentata dal .Zo-
manzo di Perugia e Corciano, l altra dalla cronaca sopra ri-
cordata.

1. — Nel codice vaticano 4834 fa séguito al romanzo,
da c. 98r a c. 100v, un testo in prosa di materia caval.
leresca. C'intratterremo di esso brevemente. E' una com-
posizione, trascritta dallo stesso .copista del romanzo, con
l identica partizione in « conti » e la medesima coloritura
dialettale. Contiene la narrazione di alcune avventure di
Rinaldo da Montalbano. Una lacuna, forse non maggiore di
nno o due fogli, divide il testo in due frammenti: il primo,
più breve, occupa soltanto una carta del codice e riguarda
l'assedio posto a Parigi da un re saraceno con un esercito di
centosessanta mila uomini, mentre Carlo Magno si trovava
a Roma. Gli assediati sono soccorsi da Rinaldo che guida la
sua schiera famosa di settecento e dalle truppe di Girardo
della Fratta, accompagnato da don Buoso e da don Chiaro,
mentre Gano di Maganza rimane proditoriamente inattivo. In
una furiosa battaglia sotto le mura di Parigi i cristiani rie-
scono Vincitori, ma subiscono gravi perdite.

La menzione di don Chiaro, nipote di Girardo della
Fratta, ci avverte che questo frammento si collega ad una
versione della canzone perduta su Girard de Fraite, séguito

(1) Cronache della città di Perugia edite da A. FaBRETTI, ‘Torino, 1888,
II, 116-118. IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 81

dell’ Aspremont; ma l’intromissione di Rinaldo da Montalbano,

personaggio estraneo a questa leggenda, dà a credere che
il testo umbro derivi da una delle tante Storie di Rinaldo,
di fattura italiana, o per meglio dire, toscana, che dal poema
su Rinaldo da Montalbano trassero alimento (1).

Si sa quale immensa popolarità godette in Italia la leg-
genda dei Quatre ils Aymon, di cui esiste una versione
in ottava rima rappresentata da una redazione in 51 can-
tari da assegnarsi sicuramente al trecento (cod. palat. 364
della Naz. di Firenze) e da un’altra, più ampia e rammo-
dernata, in 58 cantari (cod. Ricc. 683 e parecchie antiche
stampi) (2). I primi 26 cantari della redazione più arcaica
trovano riscontro nel Rinaldo in prosa, ma non gli altri 20
che dipendono dal Renaut francese. Appunto alla materia

trattata negli ultimi canti del Rinaldo da Montalbano si rife-
. risce il secondo più ampio frammento umbro (c. 99 » - €. 100 v),
pur divergendone in taluni particolari che non è il caso di
esaminare.

Nella chiusa del secondo frammento si afferma che, se-
condo il misterioso cronista brettone, menzionato più volte
nel Aomanzo di Perugia e Corciano, il corpo di Rinaldo si
trova in Francia, a S. Dionigi; mentre, secondo altri, sa-
rebbe seppellito nella badia di Colonia sul Reno, ove il pa-
ladino era stato : ucciso. Ne trarremo la deduzione che il
rimaneggiatore umbro aveva sottocchi più di una versione
del Rinaldo, da cui attingeva secondo il suo gusto e, forse
anche, secondo: il suo capriccio.

Un terzo frammento, più breve ancora, che abbiamo in-
titolato : I leone di Corciano (cfr. Appendice II), si riferisce
al leone di travertino, ancor oggi visibile, benchè in cattivo

(1) Pro RAJNA, Minaldo da Montalbano, Bologna, 1870, p. 96 (estr., dal
Propugnatore, v. III).

(2) Pro Rasna, Frammenti di un’edizione sconosciuta del « Rinaldo da
Montalbano » în ottava rima, Firenze, Olschki, 1907 (estr. dalla Bibliofilia,
vi IV).

1
——

T E * A
——Milnsti_ A. UÉRCNEDE EROS ia

sagre >
82: M. CATALANO

stato di conservazione, a Corciano, in Piazza Vittorio Ema-
nuele II, oppure all’altro leone, pure di travertino, di porta
S. Maria (1).

8. — Che il nostro romanzo appartenga al trecento è
stato riconosciuto senza riserve dal Monaci e dal Degli Azzi.
\A tale epoca, e anche a più addietro, ci riportano le costu-
manze descritte nell’ episodio cavalleresco di Orlando e Oli-
viero. Quivi il fiero comune perugino, soggetto a un nobile,
che « quase per sua bontade era signore de la cità » (capi.
tolo XXVIII), a malincuore e cedendo alla violenza, accetta la
supremazia del potente sire d'Amelia e di Spoleto (cap. XXXI).
Pure al trecento ci riportano gli accenni alle lotte con gli
eretici, allora vivissime ed aspre, dall’ autore collocate ana-
cronisticamente ai tempi della conquista franca (capp. XXVI,
XLIII) (2).

E’ tuttavia possibile rinchiudere in un giro d'anni più
breve l'epoca della composizione del romanzo. Un prezioso
elemento cronologico trovasi nel capitolo XXIII. Quivi si
legge che Achino, primogenito del conte del Lago, fabbricò
nell’ Italia meridionale un castello « quale se chiama Acquino,
dei quale descese, dicie l'autore, puoie glie conte d’Acquino
e sancto Tomasso d'Acquino ».

Il testo si manifesta perció posteriore al 1323, anno in
cui S. Tommaso fu canonizzato, e poiché la fantastica ge-
nealogia si trova, a detta dell'autore o raffazzonatore, anche
nella sua fonte o redazione più arcaica che sia, è chiaro che
la forma attuale dei « conti » non puó essere anteriore alla
metà del trecento. Il termine ad quem è fornito dalla grafia
del codice che sarà prudente assegnare alla fine del se-
colo XIV o al principio del XV (3). Ma, poichè i frequenti

(1) COLLESI, Op. cit., p. 170-171.
“@ L. Fumi, Eretici e ribelli nell’ Umbria, Todi, Atanor (studio che ri-
guarda il solo decennio 1320-1330).
(3) La carta è priva di filigrana in modo che viene a mancare questo
importante elemento cronologico. Qua e là nel ms. si leggono alcune date.
"€ E r Pa

IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO

errori di trascrizione danno fede che non abbiamo dinanzi
un originale, si può fissare la data del testo attuale tra il
1350 e il 1380 e della forma più arcaica tra il 1330 e il 1350.

Anche il materiale linguistico ci riporta al trecento, poi-
chè desso è press’ a poco quello adoperato da Iacopone da
Todi e dai laudesi. E' difficile, per non dire impossibile, cir-
coscrivere l’area linguistica, perchè manchiamo dei sussidi
necessari, ossia di indagini ben condotte sui principali anti
chi dialetti umbri. Tuttavia l'uso della forma ei come articolo
plurale, che si ritrova con una certa frequenza nei codici

di laudi di provenienza perugina, quali il Vallicelliano A-26

e il Perugino F. Giustizia 5, è buon indizio che dobbiamo
guardare specialmente a Perugia (1)

9. — Oltre alla lingua, altri elementi importanti, desunti
dall’ analisi del testo ci richiamano a Perugia.

Della capitale dell'Umbria si menzionano infatti gli edi-
fici, le costumanze e alcune località. Soltanto un perugino,

A c. 55 è riferita: « la profetia facta per frate Tomassino di Norcia nel 1363.

del mese di settembre >; a c. 117 appaiono gli anni 1447 e 1448; ac. 120
altra data del 16 luglio 1462. Le date appartenenti al sec. XV sono scritte
con grafia posteriore a quella del romanzo.

(1) Sul vernacolo moderno della città v. D’Ovipro in Arch. Gott. ital.,
IX, 73 n.; su quello del contado v. Ascorir nel medesimo A. G. It., II,
466 e SaALvioni in Giorn. stor., XXVIII, 204-208. Le scritture volgari in
antico perugino sono per la maggior parte inedite. Alcuni testi sono citati
dal Monaci negli Appunti per la storia del teatro italiano, Imola, Galeati, 1874,
I, p.8, n. 1. Un breve saggio è quello edito da A. Rossi per nozze (Sag-
gi del volgar perugino nel trecento, Città di Castello, Lapi, 1882). Ben poco
si apprende dall'art. del DeeLi Azzi, Il dialetto perugino del secolo XIV, nel-
P Umbria, 1900, III, p. 13, 33, 51. Utilissimi invece i seguenti articoli che

riguardano tutto il territorio umbro-marchigiano : Sarviowr, Ji. pianto delle:

Marie in antico volgar marchigiano, nei Rendiconti della R. Accademia dei
Lincei, s. V, vol. VIII (1899); Monaci, Sulle formule dell’ « Ars notaria > dî
Rainerio di Perugia, negli stessi Rendiconti, s. V, v. XIV (1905); Monaci,.
Antichissimo ritmo volgare sulla leggenda di S. Alessio, pure nei Rendiconti, s..
V., v. XVI (1907).

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84 M. CATALANO

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o almeno chi avesse dimorato lungo tempo a Perugia, a-

vrebbe potuto, come il compilatore dei « conti », ricordare
con precisione le colline sullé quali fu fondata la città (ca-
pitolo XIV), i cinque tradizionali quartieri con le loro inse-
gne (XXVII, XXIX), la cattedrale antico tempio pagano e
luogo di riunione dei consigli popolari (XXIX, XXXI, la
contrada del Verzaro (XV), le famiglie illustri (XIV), le mag-
giolate (XVII), la celebrazione della festa della Pentecoste
confermata dagli statuti volgari del 1342 (XVI), l'etimolo-
gia strana del nome di Perugia (XVIII). S. Pietro: martire,
ossia S. Pietro da Verona (XXVI), feroce persecutore degli
eretici, scelto nel 1253, subito dopo la sua canonizzazione,
a protettore di Perugia (1), l insegna comunale del grifone,
e inoltre i dintorni pure con esattezza: Ponte S. Giovanni
(XXVIII), Monte Malbe e il confine del territorio (IX).

Altri argomenti valevoli si possono però accampare per
ritenere l' autore nativo di Corciano, borgata a pochi chilo-
metri da Perugia, a mezza strada tra questa città e il lago
Trasimeno. La conoscenza precisa e minuta del paese e dei
luoghi circonvicini, il compiacimento e l'interesse manifestati
nel descrivere la fondazione del castello, la natura geologica
del terreno e della pietra da costruzione, la fertilità del ter-
ritorio, la. ricchezza delle boscaglie, l' abbondanza della cac-
ciagione, la purezza dell’ aere, la freschezza delle fonti; e
ancora la discussione sull’ etimologia del nome del castello,
la tendenza encomiastica palese nel magnificare i progeni-
tori dei signori di Corciano, dei quali si dà la genealogia
dai tempi favolosi di Troja sino all’ epoca carolingia: sono
tutti indizi che inducono a ritenere corcianese l'autore dei
« conti ».

Contro l'origine perugina si possono però produrre due
argomenti. Si sa che nel medioevo i greci, per l'inganno fa-
moso del cavallo di legno, ebbero fama non buona, mentre i

(1) Lure: Bonazzi, Storia di Perugia, Perugia, 1875, I, 297.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 85

troiani furono celebrati come tipi di perfetti cavalieri. Orbene
Corciano è fabbricata dai prodi troiani della famiglia di Co-
‘ ragino, mentre la fondazione di Perugia è attribuita ad Uli-
ste o Euliste, che è quasi sempre confuso col famoso Ita-
cense maestro d'inganni, non ostante che qua e là riman-
gano vestigia della sua origine troiana. Inoltre nel capi-
tolo XXXI si manifesta una certa sfiducia nel valore bellico
dei perugini. Richiesta di matrimonio dall’ Orgoglioso, la Pol-
zella Prosemana è obbligata a cercare salvezza nell’astuzia,
non essendo sicura di essere vigorosamente difesa dai suoi
concittadini, e ciò mal si addice ad uno scrittore perugino,
che avrebbe dovuto essere più geloso del buon nome della
‘ sua patria.

Le due ipotesi possono essere conciliate, immaginando
che il romanzo, almeno nella sua forma primitiva, possa es-
sere stato scritto da un corcianese dimorante a Perugia. Bene
cosi si spiegano la conoscenza precisa di ambedue i luoghi,
una certa preferenza per Corciano e il rilievo delle differenze
fra gli abitanti del castello e quelli della città, per le quali
avvenne la divisione di Monte Balbe o Malbe, che « anco
dura » (cap. X). i

Il rimaneggiatore del romanzo poté invece essere un
perugino. Infatti il breve frammento sul Leone corcianese,
nella cui bocca é nascosto un perfido scorpione che dà la
morte a un fanciullo, testo scritto nella stessa lingua e gra-
fia del romanzo, cosi conclude: « E ancora quillo lione deie
essere a Corciano, secondo che dicie el componitore de que-
sto dire ». E' chiaro che l'ignoranza delle cose corcianesi
deve essere attribuita non all autore, ma al rifacitore dei
« conti ». :

L'autore non deve essere stato un ecclesiastico, per-
ché con troppa acrimonia si scaglia contro i preti del suo
tempo, quando discorre dei sacerdoti pagani che truffavano
la credulità dei fedeli (cap. XVII) -È intinto di storia
sacra e anche un po' di storia profana, ma di questa cono-

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86 M. CATALANO

sce specialmente quella che ai suoi tempi aveva laria di
essere storia, mentre in realtà era un tessuto di favole tro-
iane, romane e carolingie. Conosce la leggenda di Turno e
Enea, ma, data la sua ignoranza del latino (cfr. cap. XXVI),
é da ritenere che abbia attinto, piuttosto che da Virgilio, da
qualche composizione storica volgare sul tipo delle Storie de
Troja e de Roma (1). Quando peró vuol mettere a profitto la
sua erudizione, cade in errori puerili e grossolani, riportando
all epoca greco-troiana l'istituzione dei digiuni dei Quattro
Tempi, e l'usanza di seppellire i morti sotto gli altari, pro-
pria dei primi tempi del cristianesimo, mescolando strana-
mente i riti pagani e cristiani, e riferendo che l'Umbria nel-
l'epoca longobarda era popolata da saraceni diventati cri:
stiani per effetto della conquista franca.

I frequenti bruschi trapassi dal discorso diretto all'in-
diretto e viceversa, la sintassi zoppicante in piü di un luogo;
l elocuzione priva di finalità artistica, l' ingenuità del rac.
conto, sono-altrettante prove che siamo dinanzi a un pro-
dotto schiettamente popolare. La ripetizione costante di al-
cune formule stereotipate, con cui l'incolto scrittore si rivolge
al pubblico, dà fortemente a sospettare che il Romanzo di
Perugia e Corciano fosse destinato alla recitazione (2).

Dalla confusa e infantile erudizione, dalla conoscenza
delle leggende troiane, romane, bibliche, carolingie, brettoni,
dai molteplici accenni a un uditorio, dal carattere generale
dell’ opera, sî deduce che il novellatore potè essere uno di
quei cantastorie che, o per libera professione o perchè sti-
pendiati dal comune, raccoglievano nelle piazze di Perugia
le folle attente e palpitanti. Appunto a Perugia e al suo con-

(1) Ernesto Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli, Città di Castello,
Lapi, 1889, p. 118.

(2) Si ponga mente ai moltissimi: « E sacciate, singnore » sparsi per
tutto il racconto e anche alla frase: « come avete udito », che chiude il
cap. XIII.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 87

tado appartennero i cantastorie del trecento e del principio
del quattrocento: Ercolano di Gilio, Angelo Muti o di Lando,
Giovanni di Marco (1).

Non manca qualche parvenza di bellezza nell’ episodio
del melanconico Vivante, sempre assalito dal nostalgico ri-
cordo della distrutta patria e nell'altro di Novizio che s' in-
namora per fama della donzella Candida. Ma sono pallidi
raggi: nullo o quasi nullo è il valore letterario del testo che
ha interesse puramente storico e linguistico.

Anche i personaggi vi sono delineati rozzamente. Forse
quello meglio colorito è la Polzella Prosemana, singolare tipo
di accorta giovinetta, che sa tenere a bada l’ Orgoglioso di
Persia e, mentre tresca con Oliviero, si mostra disposta ad
abbandonarlo impudentemento, non appena rimane ammi-
rata della forza e valentia di Orlando.

Il Degli Azzi ha ricercato gli elementi storici del ro-
manzo, ma con niun risultato. Che l’ Orgoglioso di Persia sia
da identificare con il terribile Baduilla, della cui lotta con-
tro Perugia è rimasto vivo il ricordo nella tradizione popo-
lare, sembra difficile ad ammettere. Il nome dell’ Orgoglioso
ricorre in numerosi romanzi cavallereschi (.Auberon, Huon et Ca-
lisse, Huon de Bordeaux, Yde et Olive ecc.) e la Persia che
non dovremo ricercare nell'Asia, essendo il vincitore di Oli-
viero un potente feudatario umbro, sarà forse una corruzione
di Peroscia (Perugia). Infatti nel cap. XLI l’ Orgoglioso dice
ai Perugini che « vole el titolo de la cità de Peroscia e
vuol essere chiamato l'Aregolglioso de Persia », inten-
diamo noi « de Peroscia ».

Un personaggio storico si dovrà forse ravvisare nel
conte del Lago, perché é logico supporre che le isole del
Trasimeno, prima che cadessero sotto la dominazione di Pe-

(1) Vedi i documenti editi da Apawo Rossi, Memorie di musica civile in

Perugia cit.

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88 : M. CATALANO

rugia con le sottomissioni del 1130 e del 1164, apparte-

nessero a feudatari, di cui non ci é pervenuto il nome (1).

Questa introduzione alla lettura del Romanzo non ha la
pretesa di dar fondo a tutte le questioni che scaturiscono

dall'analisi del testo. Vogliamo anzi sperare che la presente

pubblicazione apra la via ad altre che completino e correg-
gano i risultati ai quali siamo pervenuti. Noi ci auguriamo
soltanto che i lettori umbri indulgano all’ opera nostra in
considerazione delle fatiche durate nell’ esumare un monu-
mento tanto interessante e suggestivo, che rievoca e colo-
risce le loro gloriose poetiche tradizioni e, se pur rozzo nel-
l’ eloquio, non è privo di quel fascino sottile che si sprigiona
dagli antichi prodotti narrativi.

(1) Nel 1130 gli abitanti dell’ Isola Polvese fanno atto di sommissione
a Perugia e si obbligano a non ricevere nè conti, nè cattanei, né nobili,
senza il permesso del comune perugino ; l' Isola Maggiore segui l'esempio

della consorella 34 anni dopo. Cfr. Bonazzi, Storia di Perugia cit., I, 227-228.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO

AVVERTENZA

L’edizione è condotta sulla fede dell’ unico manoscritto noto,.
che è stato riprodotto scrupolosamente. Mi sono tuttavia industriato
di correggere i manifesti errori: del copista: in questi casi la le-

zione del codice è stata relegata in nota. Ho adattato il testo al-
l’uso moderno della grafia e dell’interpunzione, senza però tur-

' barne o alterarne le peculiarità linguistiche. Inoltre non ho creduto

di rispettare il costante irrazionale raddoppiamento della s nei nessi
mediani sc, sp, st (ad es. casstello, conossciea, quissto, Ulisste,
ressposta, ecc.). Ho invece mantenuto il raddoppiamento della con-
sonante iniziale di una parola preceduta da particelle proclitiche
monosillabiehe (che-sstaiendo, che-lla, a-llui), fenomeno che è ca-
ratteristico del territorio umbro-marchigiano.

La divisione in capitoli e le rubriche sono state da me intro-
dotte per agevolare la lettura in conformità dei romanzi cavalle-
reschi del tre e quattrocento.

I supplementi sono indicati, secondo l’uso, con parentesi quadre..
M. CATALANO

Il Romanzo di Perugia e Corciano

»CAP. I. — Come Uliste venne avetare el castello de Sancto Lo-
renco de Peroscia.

(c. 787) Qui comenca lo conto che, quando Uliste andava
cacciando per la montangna de Montebalbe (1) verso el Te-
vere, en quille parte che oggie è el castello, overo, tempio
de sancto Lorengo de Peroscia (2), esso trovò una orsa molto
irata, la quale glie dié molto empaccio e pena, e combattere
glie convenne con essa, ma Uliste, che era prode uomo, la
conquise e ebbe alora molte visione, quale qui non se ponono.

E sacciate che Oliste era prode uomo e molto bello de
suo corpo ed era lungo e grande, de mesura sette pieie, e
avea con seco molte barone e gente da biene. E fra gli altre
avea con seco uno barone che avea nome Coragino, el quale
avea uno suo fratello ch'avea nome Vivante, el quale Vi-
vante era molto bello de suo corpo e molto (3) nobele, e
avea con seco uno ch'avea nome Forandano, che era molto
savio uomo, ché esso conosciea, entra l'altre cose, essendo
enn'aleuna montangna, quanto era de lungne l'acqua e per
quanta mesura se trovava (4) Et avea seco Uliste e (5)

(1) Oggi Monte Malbe, altura posta fra il territorio di Corciano e quello
di Perugia. L'antico nome è testimoniato pure dal cod. 1256 della Comu-
nule di Perugia, in cui a c. 50 si legge: « Monte Balbe [il B è sostituito
da mano più moderna con una M]. Il d. Monte già si chiamava Malot,
cioè Monte de’ Responsorij, overo Indovinamenti ».

(2) La cattedrale di Perugia.

(3) ms. et molto et molto

{4) Aveva, cioè, la virtù di un rabdomante.

(5) Questa copulativa pleonastica s’ incontra una certa frequenza. IL ROMANZO DI PERUGIA R CORCIANO 91

molte altre barone e molte famelglie e gente, peró che quando
venne la devisione tra ei grecie per lo Palliadonne (s?c) e per
altre cose, esso fo molto forte con sua gente a (1) defesa,
per ció che, quando Antinore (2) glie dié el Pallaidonne, gli
altre grecie n'àvvero grande onta e ciascuno se reputava
dengno d'averlo en guarda e omne uno se reputava d'avere
fatto più enn-ella briga (3), e fo tra loro grande ucisione.
Quale anegò en mare, ... (4) si che, dicie l'autore, che de
mille nave che andaro ad oste a Troia, non tornaro trecento (9)
nelle parte de Italia, overo en Grecia. Mo (6) dicie lo conto
che alquanto Coragino da parte de donna era parente de
Uliste e perciò, al passare del mare, Coragino s'aconpangnó
con Uliste e senpre (c. 78 v) Coragino era ad una corte con
Uliste e suo fratello e Forandano, quale Forandano fo bailo
de Coragino.

Cap. II. — Come Coragino con sua fameglia se parti dal ca-
stello de Uliste.

Ora dicie lo contó che atanto (7) Oliste avea già fornito
tanto sua castello che se potea biene avetare per molta gente,
sì che Coragino e suo fratello e Forandano aveno già nel

castello aconcie loro abitatione.
Mo dicie lo conto che-sstaiendo uno giorno Euliste con
molte altre barone e Coragino e suo fratello Vivante e Fo-

(1) ms. e

(2) ms. antinote con V' ultimo € espunto e sostituita da T

(8) ms. briga. Nell’antico umbro si ha appunto briga (cfr. il lessico del
Ferri nell'ediz. delle Laude di frate Iacopone da Todi cit. a p. 147).

(4) È probabile che qui il copista per distrazione abbia soltanto qual-
che rigo.

(5) ms. III°

(6) ms. ma

(7) ms. quando
Rm

92 M. CATALANO à

randano a ragionare (1) de suo castello, Euliste disse: — Non
sia niuno barone che abbia quista credenca, ché io abbia fatto.
quisto castello se none per me e per mia famelglia. — E.
pertanto Coragino, che era nobele uomo e troiano e avea
seco sua donna, ch'avea nome Solina et era piü bella donna
del mondo, e-sschifo molto, e'disse: — Donqua niente aggio
io pensato che io credea abitare en quisto castello como con
mio caro (2) padre? — E 'ntanto disse a suo fratello et a
sua donna e anco a Forandano: — Io non volglio estare più
en quiste parte che io prenderò altro camino. — E alora el

seguente di per tempo da mane manda per tutta sua famel- i
glia e fedeglie e fa aconciare sua salmaria e tantosto se parte |
e misese per la selva che era molto grande nel paese. E |
sacciate; singnore, che Coragino era nobele uomo de suo

sangue, che quando el re Priamo mandó per suo padre a |
uno suo castello che devesse abitare ella cità de Troia, esso |
era molto grande e avea molte barone ed era molto ricco |
d'oro e argento e de fedeglie e d' annimaglie e bestialglia,

sicchè esso passò molto aconcio de qua.
Cap. III. — Come Coragino arivó al luoco de Corciano.

Entanto dicie l'autore che esso arivó la sera per la fo- |
resta ello luoco, uva (3) che mo è posto el castello de sopra 1
de Corciano, enn-una grande balca en cima de monte apresso-

a la montangnia alta, e trovaro el di porcie senghiaglie e
cavriuoglie e cervi (c. 19 7), perchè li era acqua, sì che per
lacqua ci arivava molta cacciagione. E pertanto la sera
montaro en cima al poggio e avea li molte grosse arbore e
grande selva. E pertanto Forandano fo arivato a sommo del
monte e piacque a luie molto quillo luoco: tornò a Coragino

(1) ms. era gionare P.

(2) Segue fratello cancellato.

(8) ms. va
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 93

che era con sua donna e sua famelglia e suo fratello Vivante

nella valle e pensavanse a l acqua, e disse alora per loro

confortare: — Io credo che-Ddio é con noie, perché me pare
avere trovato el più bello luoco del mondo; perciò andiamo
Ad OSSO. —-

CAP. IV. — Come Coragino e Solina e Forandano ebero molte
visione e se aconciaro sul colle de Corciano.

Ora dice lo conto che Coragino era alquanto malenco-
noso, ma non mustrava per sua donna ed anco per suo fra-
telle, perchè questo suo fratello era el più malenconoso uomo
del mondo, e senpre, dicie l'autore, che esso se recordava
de sua cità de Troia, piangeva e lagremava molto forte
e non volea niente se altre el confortava; e per questa ca-
gione suo (1) fratello Coragino non mustrava la grande ma-
lenconia che esso avea dela partenca del castello de Uliste.
E così andaro ala semmetà del colle e lì aconciaro loro modo
d’arbergare; e li dicie l’autore che ebbero molte visione e
quase concordavano ensieme e sstettoro la notte tutta en
quiste fantasie, sicchè l'altro giorno Forandano àne auta sua
visione e pensò en sé. Quando el giorno fo fatto chiaro, esso
avisó el paese e vidde la montangna che avea de sopre e
'—] bello piano verso la parte del ponente, e consideró che 'l

]uoco era bello (2), de buona aire, e disse a Coragino: — El-

glie me pare, se ve piacesse, che noie ci aconciamo en quisto
luoco e si per le belle aire e anche per le belle visione che

io fecie questa notte passata. — E pertanto la donna e Co-

ragino guardano l'uno a l'altro, emperó che ciascheduno avea
auta sua visione, e dissero (c. 79 v) a luie: — Forandano,
que te pare? — Et quillo respuse: — Io dico che noie ci

(1) ms. suo suo :
(2) Il copista distrattamente ripete: piano verso la parte ael ponente et

considero che lluoco era bello ...

M

A MES un. v gra

=
» MPS —

*

È Sn 94. M. CATALANO:

aconciamo al nome del nostro Eddio. — E cosi fuorono con-
tente e comencaro a tagliare arbore e a fare trabachie e
mettere gli arbore grosse a la proda de la balga (1) e for-
tificaronse molto biene, emperò che [erano] tempe de legname
tanto, sicchè altre nonn-averia poduto entrare se non per
porta.

Cap. V. — Come Coragino puse suo palacco e suo castello.

Ora dicie lo conto che entende a dire como pusero loro
castello, perciò che Coragino puse suo palaggo verso el po:
nente et era bellissemo palagco: la porta puse verso me-
ricco. E sacciate che quillo monte avea poca terra: tutto
era pietra morta (2) e esso [fecie] levare la cima del monte,
che era molto acuto, e puse a le pendigie l'altre case basse,
e ’1 muro del castello fecie fare a pietre e a terra entrisa,
oggie apellato creto (3). E volglio che sacciate che Forandano
fecie fare nella sementa de quisto castello uno poggo d’acqua,
quale fo cavato tutto per pietra, e cosi deie essere; e l'acqua
che cie viene tutta pare d'essa (4) pietra e non per viene, e
de sua cupecca [era] più de treuta pieie, secondo. che disse
lautore; e pone ch'é la melgliore acqua e piü sana a bevere
che sia al mondo. Le case e tutto suo palacco erano coperte
de pietra, oggie chiamate eschiaccie (5), ed era suo castello
molto forte e fecielo en poco tempo e avea bella abitatione.

Cap. VI. — Come Vivante andava a caccia a la montangna ed
era malenconico.

Ora lasseremo qui lo castello e aconteremo de suo fra-
tello Vivante, che esso andava molto a caccia e perció che

(1) Segue: qui ritto copria verso, frase inintelligibile che crediamo oppor-
tuno relegare in nota.

(2) Pietra che si sfaldava facilmente.

(8) Come osserva il Collesi la poltiglia di terra mescolata con cannucce
e paglia è ancor oggi adoperata nell’ Umbria per costruire case in campagna.

(4) ms. dessa dessa. È ovvio che pare significa esce.
(5) Scheggia e falda sottile di pietra.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 95

esso avea molto copia de buone cane da cacciare e menate
lione de suo paese nodrite a la caccia. E de ciò nonn-è ma-
ravelglia, perchè quillo paese de là, secondo che pone lau
tore, se caccia col lione così nodrite. E sempre ... (c. 807)
entrava sopre la montangna verso el levante e verso el ca-
stello de Uliste e ponevase sopra la montangna, che oggie è
apellata el pianale (1), e resguardava verso el castello de
Uliste (2) e recordavase dei suoie troiane e de sua citade.
Tanto piangea che cadea per malenconia e-sstava parte del
giorno (3) tramortito e de ciò suo fratello Coragino e sua
donna Solina e Forandano e altre suoie fedeglie aveno grande
dolore, e non volia che sua bella cugnata Solina, [che] sempre
landava confortando. E diceno a luie: — Noie avemo bello
castello. — Ed esso dicea: — Noie seremo estate melglio
duva sonno gli altre troiane, ma io non posso altro fare. Io
farò en sommo la montangna uno castello per sempre vedere
le grande citadine troiane. — E fece en sommo (4) la mon-
tangna adunare (5) grande copia (6) de pietre per fare suo

castello e molte volte piangeva tanto en quillo luoco che

uscia de sé. E anco maie nol-lo lassavano a la caccia solo
e veramente, secondo che dicie l’autore, esso parea tutto

‘autore de piante (7), così como esso era bello de suo corpo,

chè esso, piangendo e recordando sua bella citade, facea
piagnere omne persona, che col-luie era, molto amaramente.
E dicie l’autore che i lione e cane conoscieno suo pianto e
parea, mentre li tenea a mano, che piangesero, vedendo loro.
singnore tanto adolorato. E fo deliberato, per suo fratello.

(1) Denominazione oggi scomparsa.
(2) ms. vlisstj

(8) Espungiamo un inutile che

(4) ms. eseciesommo

(5) ms. adunate

(6) Segue cancellato decitadine

(7) Il suo pianto era causa negli altri di pianto.

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M

ie ———— E 3 ades ul.
96

M. CATALANO

Coragino e per Forandano, che esso non andasse a la mon-
tangna solo e senpre (1) andasse a la caccia al piano de
‘quattro focie e oggie (2) apellato el piano de quattro piana (3).

Cap. VII. — Come Vivante e Forandano andaro a caccia al
piano de quattro focie.

Ora dice lo conto che uno giorno Vivante volia andare
o

a la caccia, sì‘che Forandano disse: — Ve volglio venire,
ma volglio che noie andiamo a la caccia nel piano de quat-
tro focie. — E Vivante dicie: — Andiamo. — E alora, con

più fedeglie e con alquanta vivanda enn-uno mulo posta,

andaro e tanto andaro per la selva che arivaro per fine al.

laco. E dicie l'autore che se posavano a proda del laco e
prendeano de quilla acqua alora deletto. E pertanto dicie
‘ l’autore che uno (c. 80 v) nobele conte, che era singnore del
laco, essendo en suo palacco inn-una isola del laco, vedendo
quista gente li arivata, tantosto apella sua famelglia e manda
a sapere quale gente fosse e fo cosi ubedito. E sua famelglia
con suo navigio vennero en quilla parte uva estava Vivante
e Forandano con piü altre e aveano presa molta cacciagione
e dissero a loro quale gente erano. E Forandano, che sapea
latino, tantosto respuse e dicie: — Semo troiane che andamo
‘a la ventura. — E pertanto quillo messaggio torna tosto a
sua isola e a suo singnore e aconta a luie tutto el fatto e
dicie: — Scire, merciè io ve chiedo, che maie a mio vivente
io non vidde più bella criatura e uno suo padre overo mae-
stro e altra gente, e aggiono molta cacciagione e dicono che
sono troiane, ma io ve dico che più bello uomo nonn-è en
quisto mondo. —

(1) Segue cassato esenpre.

(2) Il ms. dice chiaramente oggie e non loggie, come stampa il Collesi,
«che vorrebbe vedervi un'allusione alla località Loggi delterritorio di Corciano.

(3) A sud di Corciano, vicino al torrente Caina, esiste ancora una lo-

calità chiamata il piano.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 97

CAP. VIII. — Come el conte del Laco fecie grande onore a
Vivante e Ferandano.

Ora dicie lo conto che '| conte del Laco tantosto prende
sua gente e viene a la parte duva é Vivante e Forandano,
e quando vidde quista gente, fa grande onore a Forandano.
Ma Forandano fa (1) a luie sembiante como quillo è suo con-
sorto e singnore. E alora lo conte si fa a luie grande onore
e demanda de loro gente e del paiese. E Forandano, che era
savio uomo e sapea biene latino, disse al conte como erano
troiane e como aveano fatto loro castello ella (2) «1:
disse che era en mecco tra el laco e ’1 Tevere, e ancora de
Coragino e de sua dama Solina e de loro gentilecca, e como
apresso al Tevere en la foresta erano molte altre troiane e
erande barone. E dicie a luie lo convenente de Uliste e como
avea posto suo castello e como alquanto coroccio era suto
entra Coragino e Uliste per minnova parola. E puoie dicie
a luie alquanto del convenente de Vivante e de sua malen-
conia, e lo conte fa grande onore a Vivante e guarda molto
a sua bellecca, e Forandano conta la bellecca de Coragino e
de sua dama e anche de Oliste e d'altre troiane. En fine de (3)
(c. 81 7) loro ragionamento eran gionte, como lo conte avea
ordenato, de buone vivande e pescie cotte e crude e alquando
prendono li da bere e da mangiare. E puoie lo conte fa do-
nare a loro molta cacciagione, ma molto meravelglia lo conte
de si fatte animali concie a la caccia, ché avevano alcuno
lione concie a la caccia, e de ciò se facea lo conte grande
maravelglia. E Forandano dicie: — Conte, non meravelgliare
chè en nostro paese sonno molte lione concie a la caccia. —
E a la fine de suo partimento fa grande onore a Vivante e

(1) ms. fo
(2) el-la = en-la. L' assimilazione regressiva consonantica è frequente
nell'antico umbro.

(3) ms. efineche

Y

T

È
1
1
i
|

[

MD

um

y
è 98 M. CATALANO

priega loro molto che debbano andare a loro palaggo che era
a l'isola e esse fanno a luie resposta che non era alora tempo,
— ma che altra fiada n'anderemo. — E tantosto se parteno
l'uno da l’altro e tornaro a loro paese.

Cap. IX. — Come Vivante e Forandano acontano a Coragino

le belle accoglience del conte del Laco.

Ora dice lo conto che Coragino e sua dama aveno grande
gelosia de Vivante e stavano de luie en pensiere. E tantosto
loro cane da caccia, che venieno ratte per la foresta, tornaro
alquanto ennante al castello de Coragino e esso alquanto se
fe' (1) a loro encontra e esse raportano molta cacciagione e
buona. E Coragino e sua dama fanno grande allegrecca e
altre fedeglie, quando tornava Vivante, e ció fanno (2) per
dare a luie alquanto conforto e prendono alora reposo e acon-
tano como apresso al paiese é bello laco e como (3) n'é sire
uno benevole (4) conte e bello e cortese de suo corpo. E
acontano come à fatto a loro onore grande e como volse loro
menare a sua magione a una bella isola che pare en quillo
laco. — E seramo andate se non che dubitammo de vostra
malenconia. — E fanno grande festa del molto pescie che
dato avea a loro e bello, e acontano a Coragino como ànno
promesso a lo conte altra fiada d'andare.

Cap. X. — Come fu fatta la devisione della montangna tra el
castello de Coragino e '| castello de Uliste.

Ora dicie lo conto como Vivante era tornato a la caccia
a la montangna: alquanto perdea sua malenconia e guardava

(1) ms. se fe se fe
(2) ms. sonno
(3) ms. e chomo e chome

(4) ms. benevele

UUETATEMPUETUAUT
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 99

verso el castello de Euliste (1). E stando a tale partito, sente
gente a la (c. 81 v) caccia per la foresta venire verso de
loro, e uno fedele de Vivante e suo fratello va a quilla parte
e truova como sonno glie fedeglie de Oliste. Alquanto pren-
dono ensieme coroccio e dicono a loro che non vorrebbero
che tanto avante venissero a la caccia. — E se fortuna pro-
mette che Coragino (2) ve trovasse, forte serebbe tornare a (3)
Uliste. — E alora trasse Vivante verso quilla parte e dicie
a loro Vivante quille parole che avea a loro ditte quillo
fedele. E alora Vivante desciese alquanto verso el castello
de Uliste sulla valle, ché v'era alquanto acqua, e prendono
li reposo e dicie (4) a loro che (5) altra fiada per nullo tempo
debbia passare quilla valle a la caccia nè apresemarse più
oltra al castello de Coragino. E alora fo fatta la devisione
de la montagna, che anco dura, del castello de Coragino a
quillo de Uliste. En cotale modo fo divisa alora la montangna.

Cap. XI. — Come Vivante e Forandano andaro al laco con
loro falconiere molto savio.

Ora dicie lo conto como Vivante sì s'apparecchia per
andare a lo laco e a la corte del conte per ordenare collo conte
che Coragino e Uliste facessero pacie, e dicie a Forandano,
loro barone, che esso vuole andare a lo laco e a corte de:
lo conte e como esso s'aparecchie como se conviene. E alora
Forandano responde: — De tiste cose lassa fare a me. —
E ordenato el dì, Forandano aparecchia uno camello e car-
calo de vivande e de buono vino e quando giongne lo giorno
che debbono andare, apella a sé uno faleoniere de la corte

(1) ms. e vlisste

(2) ms. choraragino
(3) ms. e

(4) ms. e dicie e dicie
(5) ms. cho
100 M. CATALANO

de Coragino e de suo fratello, e amaestralo de loro andata.

El faleoniere, che era savio, responde: — Scire, farò tutto

vostro comando. — E pertanto Vivante monta a uno bello
destriere, che menato avea de suo paese, e anche Forandano
montò en suo destriere e loro falconiere con più altre fede-
glie per andare al laco e la corte del conte. E Coragino (1).
apella Forandano e dicie a luie: — En quale parte volete
voi andare? — E Forandano dicie: — Scire, fine al laco e
per aventura anderemo a ia corte del conte per quillo ch'ab

bio sentito da Vivante. — (c. 82v) E Coragino dicie: — De
ciò so molto contento, però che io sono certo che non è (2)
de bisongno a voie racomandare Vivante. — E alora Foran-
dano fecie riso, quase dica: — Di ció non fa mestiere. —
E entanto se parteno e vanno verso lo laco e entra al piano
de quattro focie e per la grande foresta prendono a fare
loro caccia, sicomo erano usate, e la caccia fo fatta per loro
grande e presero molta cacciagione. E loro falconiere, puoie
che fo presso a lo laco, fece (3) cose colloro ucielglie che
non è uomo en quisto mondo, che non fosse uso de ucel-
lare, che ciò credesse.

CAP. XII. — Come el conte del Laco fecie festa grande a Vi-
vante nel palacco de l’ isola.

Ora dicie l' autore che, facendo quillo falconiere tante
belle cose e anco per gride che facea a suoie falcone, uno

. famelglio del conte, vedendo tale convenente, tantosto se ne

va al conte e diceglie el convenente. El conte tantosto pensa
quillo che serà e.apella sua gente e navighiere, é tantosto
se mette en nave e viene a quille parte duve era Vivante
e Forandano e loro falconiere e altre fedeglie, e quando

(1) ms. achoragino
(2) ms. non a
(3) ms. fecero
ITINERE
] mS

IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 101

sonno ensieme fanno l'uno a l'altro grande onore ed abrac-
ciare. E tantosto se mettono a nave e vanno a l'isola a la
corte (1) del conte. Non serebbe (2) singnore, lengua che
contare podesse l'onore che facea lo conte e sua gente a Vi-
vante. E omne persona se meravelgliava de tanta bellecca
quanta era en Vivante e grande onore glie facea la contessa
per amore de suo singnore lo conte. E Forandano dicie a lo
conte de [la] malenconia de Vivante e pertanto lo conte se
sforca a fare a Vivante grande onore e cosi comanda a sua
donna e a sua gente. E pertanto se fa aparecchiare el bello
mangiare de si grande vivande che dire non se poria. E
puoie che ebbero mangiato (3), el Conte va a una grande
loxa e prende per mano Vivante e molto lo conforta,
per che maie non fo uomo a questo mondo che luie ve-
desse ri-(c. 82 v)dere, puoie (4) che usci de sua terra. E
Vivante dicie: — Scire lo conte, io non posso essere alegro
perció che, puoie che io foie fuore de mia terra, maie non
podde essere alegro, per ció che piü bella terra non era né

serà al mondo. — E dicie: — Como seria duro acontare la
mangnificientia de quilla citade! — E alquanto prese ad a-

contare del convenente de la cità de Troia. E puoie che àv-
vero alquanto de ció ragionato, prese a dire si como avea
per sua (5) malenconia entra l'altre, como el corocciamento
de Euliste e quillo de suo fratello era estato, e puoie priga
lo conte che glie piaccia d’aoperarse a venire a loro castello

e pregare Coragino che faccia pacie con Uliste — per vo-
stro amore che io non perisca de malenconia — e aconta

a lo conte tutto lo fatto como era estato. E lo conte, che

(1) ms. a lo chonte

(2) ms. sirebbe sirebbe

(8) Il ms. ripete: de si grande vivande che dire non se poria epuoie che
ebbero mangiato

(4) ms. epuoie

(5) ms. epersua

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E 102 M. CATALANO

era savio uomo, comprese tutto el fatto e (1) promette a Vi.
vante che ce farà volontiere (2). E sacciate, singnore, che lo
conte v'avea a l' isola bello giardino e luoco de spasso e fa-
cea festa grande per confortare Vivante, bene che poco va-
lea. E dicie l'autore che Vivante demora en corte de lo conte
doie di e puoie se parte e prende comiato da io conte e da
sua dama e da tutta l'altra gente e torna al castello de Co-
ragino, e fanno per via bella e grande caccia per uccellare
e con grande diletto. E puoie che sonno venute al castello
de Coragino, esso facea grande festa e alegrecga, e anche
sua donna, e aveano portata molta caccia e uccellagione. E
puoie demandano del conte e de sua dama, e Vivante dicie
che lo conte é bello e nobele uomo e cortese, e como esso
avea per sua aama bella e savia donna, e de mode de sua
corte o Ge sua gente e de paiese bello. E pertanto se met-
tono le tavole e vanno a mangiare e (3) fare alquanto reposo.

Cap. XIII. —. Come el conte del Laco andò al castello de Co-
ragino e come Coragino gli fecie bellissime accoglience.

Ora dirà l'autore come lo conte s'aparechia per venire
al castello de Coragino e per andare al castello de Uliste
per trattare pacie entra loro; como esso mena seco uno
grande barone, (c. 887) che era fratello de sua. dama la con-
tessa, e anco uno altro barone de Cortona la grande e altre
assaie con bella famelglia. E tantosto uno giorno cavalca e
sì vi viene verso el castello de Coragino e manda uno suo
caro famelglio ennante. Quando viene al castello de Cora-
gino, Vivante e Forandano estavano a la porta del castello
de Coragino a giocare a scacche e, quando viddero quisto
famelglio, tantosto Vivante pensa e dicie: — Per certo noie

(1) ms. a
(2) ms. evolontiere

(3) ms. a

one AT

WONITUEED TET MEE CRAT:

IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 103

averemo lo conte, — e tantosto lievase en pieie. El famel-
glio fa sua saluto. Vivante dicie : — Como està lo scire conte ?
— E quillo (1) responde: — Tantosto serà a questo luoco.
— E Vivante fa asapere ciò a Coragino suo fratello e a sua
dama. E da puoie che giongne lo conte, Vivante (2) va verso
luie con grande reverentia e prende luie per mano e ponto
nol-lo lassa fine al palaggo. E quando sono gionte al palaggo, Co-
ragino e sua dama desciendono a la terra e fanno al conte
grande onore e con tutto loro famelglia e fedeglie. E como
desciendono al palaggo, e' loro cavalglie sonno tantosto prese
e mandate andando. E como Coragino e lo conte sonno en-
sieme e' altre barone con Vivante e Forandano cosi acon-
pangnate da semelgliante pare e barone. E puoie ch' è fatto
grande aparecchio de loro mangiare e' fanno a lo conte en
quisto modo grande onore. E lo conte demora tutto quillo
giorno ; e de l'altro giorno Coragino (3) fa ordenare la cac-
cia, perché el paese avea alora molta cacciagione (4), e vanno
verso el piano de quattro focie, che avea grande selva
verso el fiume de la Caina (5). E li falconiere de Coragino
ve fa con suoie falcone molte vaghe cose, perché v'avea
molte ucelglie d’acqua e anche prendono molte cervie e ga-
vriuoglie e porcie senghiaglie, perché el paese alora n'avea
molte; e lo conte de ció prende grande deletto. E puoie che
Anno così cacciato, vengono (c. 83 v) verso el castello e alora
lo conte prende el camino ensieme con Coragino e fa pren-
cipio a suoie parole perché faccia pacie con Uliste e dicie:
— Coragino, io volglio da voie alquanto gratia per mio
amore e anche per amore de vostro fratello Vivante. — E Co-
ragino responde : — Scire conte, non é oggie cosa quale io po-

(1) ms. equillo equillo

(2) ms. euiuante

(3) Segue cancellato e forandano.
(4) Segue cancellato e aueano.
(5) Torrente che bagna il territorio di Corciano.

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A, 104 M. CATALANO

desse fare che io non facesse. — E alora lo conte pande a luie
suo volere e dicie como esso vole che faccia pace con Euliste.
E alora Coragino dicie: — Scire, per buona fede io non deg-
gio (1) volere biene a Uliste, perchè io estette e venne con esso,
puoie che fommo fuore de nostra terra, e quando puse suo
castello; per ció che io ve stette a fare quillo che io podea
per tempo de tre angnie e anco mio consorto Forandano fe-
cie molto. per luie e de acque e d'altre cose, e puoie me
diede comiato de suo castello. Ma io ve 1’ aggio promesso:
non faria se no quillo che voie volesse. — E molto se dolea
Coragino e lo conte de tale parole é molto contenti. E ven-
gono al castello de Coragino e aparecchiase grande mangiare.
E con molta grande alegrecca (2) la contessa tutto quillo
giorno e l'altre (3) apresso [sta] al castello de Coragino e
puoie verrà al castello de Euliste per trattare pacie, como
avete udito.

CAP. XIV. — Come el conte del Laco andò a Peroscia e pregò
Uliste de far pacie con Coragino.

Mo dicie lo conto che el terco giorno se parte lo scire
conte e mena seco Vivante e Forandano e vanno al castello
de Uliste. E gionte che sonno, Vivante e Forandano vanno
davante a Uliste e contano como [avevano menato] quillo
scire da lo laco che sta posto verso ponente. E Uliste con -
molte altre barone troiane e grecie fanno a luie grande onore.
E sacciate che v'erano molte barone con Uliste: che v'era
Antemon, quale puse suo castello ello monte de porta So-

(1) ms. deggo. Unico esempio di g palatale dinanzi a o. L'assenza dell’è,
mero segno grafico, dopo il c e il g palatale si riscontra in taluni mss. to-
scani.

(2) Segue un e che viene espunto.
(8) ms. elaltre elaltre
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 105-

glie (1), quale era grande barone; ed erave (2) Landorno,
quale puse suo castello el-lo colle de Landorno, quale se
1 chiama el colle de Landone (3), e de luie desciéro glie Lan-
done; (c. 84v) ed erave lo maestro de la torre, quale era
descieso de la casa de Nebrotto (4); e quillo fo el maestro
che mise en ordene de le molte torre (5) e puse (6) suo ca-
stello verso porta Bornia (7); e molte altre troiane; e aveano :
molte fedeglie. E Uliste mena lo conte per tutta la contrada
de la terra, uva è mo posta la cità de Peroscia, e puoie (8)
Uliste mena lo conte. a mangiare con molte altre barone e
fa fare a lo conte grande onore. E puoie che ebbero mangiato,

lo conte dicie a Uliste: — Scire, alquanto volglio con esso li

se tra’ (9) en cambra e apella lo conte e fa a luie sembiante
che parle. E lo conte (10), ch’ è savio uomo, dicie : — Scire,
volglio alquanto da voie promessa, se io parlasse cosa che
per voie a me e a Vivante se devesse fare e se io parlasse

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-.voie estare a segreto. — E Uliste, como savio uomo, tantosto |
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(1) Porta Sole. ,

(2) ms. ederano |

(8) L'antiea Perugia sorse infatti sulle due colline di Landone e di
Porta Sole.

(4) Fantasticherie genealogiche, care agli uomini del medioevo. Dei
Landone non è rimasta nessuna memoria, nemmeno nella copiosa raccolta |
di notizie su famiglie perugine, intitolata De claritate perusinornm (codd. i
1429-50 della Comunale di Perugia). Nel ricordo della discendenza del ma- |
stro delle torre da Nembrot, si avrà forse, come vuole il Degli Azzi, un |
riferimento alla leggendaria fondazione di Perugia per opere di Noè. E 1

(5) Si vorrà alludere al soprannome di Turrita, dato a Perugia per le m
molti torri che possedeva nei secoli XI-XIV. Secondo alcuni scrittori per la Wu

medesima causa le deriverebbe il nome di Turrena, che non si riferirebbe -

[ : perciò ai Tirreni.
(6) ms. puso
(7) ms. Oria d’ incerta lettura. Non credo sicura la mia correzione.

(8) Segue un inutile como.
(9) ms. setra

(10) Nel ms. segue: elochonte che parle alochonte.

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106 |J. M. CATALANO

:quillo che non se devesse, abbiateme escusato. — E alora

Uliste dicie: — Aggio saputo che sete savio uomo: non po-
dete fallare. — E puoie (1) altre parole fanno, quale qui non
estanno (2). Ello conte dicie: — Scire — a Uliste — vol.
glio e domando en gratia che faciate pacie con Coragino
vostro consorto e anche per amore de Vivante, ch’ è tanto

nobele dongello. — E Uliste respuse a lo conte: — Ciò non
volglio che aggiate en gratia, chè ciò deverebbe da me pro-
cedere — e puoie dicie: — Scire lo conte, io non so per-

ché Coragino à tanto da me eschifato perché io parlasse a
luie en quillo modo che ditto ve fo, ché io non voleva male
Se esso à dificato suo castello en (3) quisto luoco presso a
lo mio e quillo che io aggio, non vorria senga sua persona
e se vole fare suo castello en quiste parte, volglio fare per
luie e preda e-lluoco en quiste parte, quale a luie piacie.
— Alquanto fo parlato de la devisione de la montangna,
quando fuoro trovate li fedeglie de Uliste a la caccia e lo
conte parla e dicie: — De ciò prigo che più non se recorde.
— K Uliste cosi (c. 84v) promette e alora lo conte fo molto
contento e dicie a Uliste: — Scire, quando ve meno Cora-
gino? — E Uliste dicie: — Io sono aparecchiato de venire
a luie en quille parte duve esso està, perché io e mia dama
e mieie barone e fedeglie, puoie che se partio, non fommo
maie contente e peró, scire conte, facete quillo che volete.

.— De tale eonvenente se partiero e vanno a loro espasso

per lo paiese del castello dei troiane. E non credete, sin-
gnore, che fossero tutte troiane, ché maiure parte fuoro gre-
cie, che maie non tornaro en loro paiese. Ora dicie l'autore
como lo conte se parte e va verso lo castello de Coragino
e dicie sua embasciada e como Uliste fecie sua resposta e
dicie si bella en suo parlare che quase Coragino mosse suoie

(1) ms. e per uoie
(2) ms. estante

(3) ms. e
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 107

‘ochie verso piento per tenerecca. E ordinaro quando se do-
vesse andare al castello de Uliste e Coragino remane con-
tento de quillo che piacie al conte. E puoie se parte lo conte
e torna a suo paiese e lì demora per aiquante di e dicie a
sua dama del convenente e de li troiane e de loro dame.

Cap. XV. — Come Uliste recevette Coragino con grande alle-
grecca e diede a Vivante lo luoco per farve suo castello.

Ora dicie lo conto che, demorando lo conte alquanto
giorne, se parte e va verso el castello de Coragino e se-
rebbe forte [acontare] lo grande onore che Coragino fa e fa
fare a lo conte. E dicie lo conto (1) che Vivante fa tanto
onore a lo conte che lengua umana non poria acontare; e
cosi fa Forandano e la dama de Coragino e ció fo en tempo
de l'automno verso la vendengna; e (2) como fa (3) grande
aparecchio Coragino e Vivante e Forandano per andare al
castello de Uliste, puoie tantosto montano. a cavallo e ven-
gono verso el castello de Uliste. E lo conte, como uomo
molto savio, tantosto apella uno suo fedele e fa asapere a
Uliste como lo conte e Coragino e Vivante e Forandano
vengono (c. 857) a suo castello. E alora senga demora. Eu-
liste (4) monta a cavallo con molte altre troiane e vengono
verso lo conte e Coragino. Como (5) savio uomo Euliste en-
chiena verso Coragino e verso Vivante e puoie mettono el-
loro mecco lo conte con dire: — Noie siamo consorte — e
ranno verso el castello de Uliste e li va molta gente tro-
iana e puoie exmontano. E Uliste prende per mano Cora-
gino e tantosto el mena a sua dama e a suoie altre barone

(1) ms. d. «a lo conte

(2) Sottintendi : dicze lo conto
(3) ms. fo

(4) ms. e vlissta

(5) Segue un e che radiamo.

n a d: ue — LL a. lI.

Eia. VOD

==

ee da 108

e anco mena lo conte e Vivante. E dicie l'autore como la
dama de Uliste per grande alegrecca facea grande pianto
en tale modo che tutte li barone che li sonno se muovono
a pianto e la dama de Uliste dicie: — Como ciò avete po-
duto fare solo per mio amore? — e puoie tantosto deman-
dava Solina, dama de Coragino. E ello risponde : — Està

bene.

— E Coragino dicie: — Farò (1) quillo che à voie serà en
piacere. — E fatto e detto molto grande parlamento, fo a-
parecchiato (2) ricco mangiare. E Uliste manda per molte
barone che già avea el paese e di ciò fa grande festa e
alegrecca e dicie a tutta gente che aveva araquistato suo
figliuolo. E puoie che ebbero mangiato, Euliste (3) dicie : —
Scire lo conte, volglio che andiamo a spasso. — E lo conte
dicie :
palagco e tempio de Uliste e vengono verso el ponente al

luoco

perché el verde è sempre fresco (4), e dicie: — Scire lo
conte,
volglio como voie abbiate vostro castello en quiste parte.
— E lo conte ponto nol-lo desdice e dicie a luie: — Io sono
contento — e così dicie a Coragino. E esso dicie : — Io non

posso

(1)
(2)
(3)
(4)
(9)

: como voie sapete, aggio fatto mio castello e però so
estanco. — E tantosto Vivante responde: — A ció mo vol-
glio io molto afatigare. — E cosi prende suo luoco. E li
v'era lo mastro de la torre, e lo conte prende suo luoco en
mecgo tra lo castello de Uliste (5) e quillo de Coragino (6)
(c. 80v) e, puoie che fo cosi desengnato, desengnaro en cia-

M. CATALANO

— E dicie a luie: — Volglio che mandiate per lieie.

— Scire, semo molto contento. — E partonse dello
quale se chiamava Versiere, oggie chiamato Versaio

prende en quiste parte luoco quale ve piacie, ché io

ms. fara

segue un inutile e.

ms. e ulisste

Corrisponde alla moderna via del Verzaro.
ms. vlisst)

s. choraragino
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 109

scuno (1) castello la torre e la casa grande e la piccola e
lo chiosto e lo poggo. E sacciate che omne torre àvve suo
chiosto e pocco.

CAP. XVI. — Come Uliste fecie le castella del conte del Laco
e de Vivante.

Ora dicie lo conto como Uliste e lo mastro da la torre
fanno li sempre lavorare e lo conte ve manda molte fede-
glie e molta vivanda per fare loro castella, ché, quando
venne la primavera, erano fornite de tutte cose e con belle
avetatione. E sempre Vivante v'era estato a lavorare (2) lo
castello de Coragino e Uliste fecie tutto quillo castello con
sua espesa e con suoie fedeglie.

Cap. XVII. — Come Uliste manda per Coragino e per lo conte
che vengano a loro castella.

Mo dicie lo conto che, quando venne la primavera, erano
fornite de tutte cose, como ditto é de sopre, e quando viene
la festa de quattro tempora, che facieno a la uscita de mag-
gio, manda Uliste per Coragino e per lo conte che vengano
a loro castella per fare la gran festa. E sacciate che li quat-
tro tempora fuoro trovate da li grecie da quilglie de Attena
e (3) Lacedemonia e faceno la festa de li quattro tempora :
quilla de lo marco perché glie diie avessero loro perdono de
loro annime ; e facevano quilla de lo maggio, che oggie se
fa la Pentecosta, perché glie diie lo daiesse buona recolta de
vino e buona sommente ; ....... (4) e facevano quilla di dicem-
bre che glie-ddie loro lo daesse buone biade e buono verno.

(1) ms. eciasschuno |

(2) ms. louorare

(3) ms. « unito alla parola seguente.

(4) Il testo è qui lacunoso : manca nella enumerazione una delle feste.

=

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cGaMcCHRSNU il UNE i E Ne ai ME _

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110 M* CATALANO

E sappiate che la facciano (1) a onore de lo-ddio Amone (2)
e de lo-ddio Bacco e de la-ddea Diana e durava (3) sempre en
quattro parte de l’anno, quattro giorne per ciascuna festa;
e faceano grande feste e de maritare o tollere sempre
en tale feste loro donne. E sacciate, singnore, che la chie-
sia de Roma trovò quiste feste a quisto modo ordenate, puoie
la rimise a degiuno, perciò che quiste prate (4), perchè l'O-
sedea fo ed è sempre (5), fanno li digiune, ma non per loro.
E volglio che prendiate asciempio de quilglie pralate (6), che
facevano mettere la notte li cibe a le-ddiie e divano (6::280:$)
che le-ddie mangiavano, fine che Daniello profeta lo mustró
per alquanto farina che sparse nel tempio e mustróllo le
pedate e manefestollo el fatto como estava e como li pra-
late li se mangiavano e devoravano e perció li false prelate
mangiano e devorano la carne de lo sangue de li secolare
e sempre sonno sute sermocinatore.

CAP. XVIII — Come Uliste fecie grande festa per sacrificare
a li eddie en suo tempio e puose suo nome a la cità de
Peroscia e al castello de Corciano.

Ora dice lo conto como a tal festa venne Coragino e
sua dama e Vivante e Forandano e como vi venne lo conte
de lo Laco e sua dama con molte barone e molte some
carche de vivanda, bene che avessero fornite loro castella
de quille cose che v' era de bisongnio; e quando giongne

(1) La lettura del ms. oscilla tra facciono e facciano.

(2) Giove Ammonio.

(3) Il Degli Azzi stampa Urania, ma è in errore.

(4) ms. pa'te. La forma comune nell’antico umbro è preîte e praite. Il
nostro autore adopera quasi sempre pralate, talvolta pure prelate. Manifesto
errore è parlate, che si trova per disteso qualche rigo più sotto.

(9) ms. perchelosedea fo edesempre. Il luogo è corrotto, ma non tentiamo
di correggere. Forse osedea sarà da interpretare per Odissea (la storia ?).
(6) ms. parlate
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 111

lo giorno de la festa tutte vi sonno venute con bella baro-
nia. E non se porebbe dire l'alegregga che facea Vivante
senca risa (1) e anche la dama de Coragino e lo conte e sua
dama. E alora fa Euliste grande festa e fa adunare molte
prelate per sacrificare a (2) li eddiie en suo tempio, quale
oggie è apellato sancto Lorenco. E dicie l'autore che, sem:
pre che facea fare sacrefitio, facea ponere el Palladion, overo
Lapidion, en suo (3) altare, però che corpo umano nol può
vedere; e facea sacrefitio en quisto modo: che esso avea
molte vitelli e vitelle femmene e mandàvele per tutta sua
terra, ed erave alquanto aconcio lengname endosso, ed erave
candele de cera raprese; e gieno così molto atorno e al
cune (4) ponieno loro candele su en quiste vitelglie (povere
vitelle!) e puoie li facea ucidere e cuocere, e davale man-
giare a li preite; e anche (5) li barone la mangiavano e
li prelate (6). E quisto se facea molto per li pralate che fa-
ceano sacrifitio, puoie ch’ é'1 pane sagrato a loro modo. E

fecie Uliste quillo giorno molto grande festa; e puoie che.

àvvero mangiato li povere, Euliste e gli altre troiane apel-

lano tutti li pralate, e fanno li prelate uno loro e grande e-

maiure (7) quale era el-lo (c. 86 v) luoco che oggie è lo Ve-
scovado de la terra; e tantosto ordenaro e fanno a quilla
ora chiamare e apellare quillo luoco e tutte li castella, ci-
tade e università de citadine de Peroscia, che per sua vi-
sione e de sua orsa era estato; e de quilla ora puoie fo
apellata la.cità de Peroscia. E puoie che li gran festa fo

(1) Intendi : che di solito era melanconico.

(2) ms. e

(3) ms. sua

(4) ms. alchuno

5) Espungo un a.

(6) Confusa descrizione dei sacrifizi pagani che non tenteremo di chia-
rire. 1
(7) Il Degli Azzi stampa emannire (imbandire), che non dà senso.

bi o

— dian diit — MM ÀJ aim

*

p T. AU M. CATALANO

così fatta e alquanto ennamte (sic) che andassero a lo bello
castello (1), Coragino responde: — Scire, nome suo è bello
«forte. — E Uliste dicie: — El nome vuol essere conseguente (2)
a la cosa, però nonn-é buono nome. — E Coragino responde:
— Como nonn.é bello nome? — E Uliste dicie: — Nonn-è
per le parole che io v' aggio ditto. — E Coragino: — Como
deve essere suo nome? — En (3) alegro parlare dicie . Uli-
ste: — Per tre cagione lo suo castello à aquistato suo nome:
enprimo perché elgli è en megco de la cità de Peroscia e
lo laco; e perché suo singnore è apellato Coragino; e
anco perché tale castello avete fatto per alquanto coroccio
-che é stato entra noie. Siché — dicie Uliste — per tre cose
puote avere nome Corciano: perché lo cuore è en mecco
«del corpo umano e vostro castello éne en mecco de la cità
de Peroscia e lo laco, là dove avete sì grande amico. — E
‘Coragino, puoie che àvve entese tale parole, disse: —
Scire, en tale nome sono io contento che ello abbia, puoie
che lo sa aquistato (4). — E però è apellato Corciano, descieso
de le tre ragione. E, fatto tanto bello parlamento, lo conte,
‘Coragino e loro dame e loro barone se partono e vanno verso
el castello de Coragino e puoie fanno a quillo castello grande
festa. E puoie se parte lo conte e vanne a suo paese con
sua dama e con suoie barone con grande alegrecca.

Cap. XIX. — Come Vivante morì per grande tristitia e fo se-
pellito nel tempio de Uliste.

Ora dicie lo conto como a la grande alegrecca s'apa-
recchia grande trestitia: che, quando sonno estate lungo
tempo elloro alegrecca, perché ànno bello castello e suo

(1) Sopprimiamo un e
(2) ms. che seguente
(3) ms. ene = è.

(4) Il testo dev'essere corrotto.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 113

‘bello tene essere (1) e ànno bello castello a la cità de Pe-
roscia, perchè Vivante prenda alegregca, como sequiterà en
quisto dicto.

(c. 88 7) Mo dicie lo conto como Vivante, bello doncello,
con (2) uno suo fedele va verso la montangna per fare sua
caccia e mena suo lione concio a ció e altre belle e buone
cane, e, quando é en sommo a la montangna, mira a la
cità de Peroscia e prende suo pensiero en suo pensiero
e sopra vi stae (3) e alquanto pone sua testa en verso la
terra per fare suo poso e fo forte ardormentato. E quillo suo
fedele alquanto se tra' en parte per dare a luie reposanca.
E como Vivante fo cosi ardormentato, faceva en sé grande
mormorare e biene lodiva lo fedele. E tanto està Vivante
cosi en tale manera che quase era presso a la notte e non
se resentiva. E talora lo vasallo prende a parlare: — Scire
bon (4) Vivante, ello è presso a la notte e però ce partiamo
et andiamo a nostro castello. — E Vivante se resente e ode
suo fedele (5) alquanto mormorare e tale ora verso suo fe-
dele: — Malaggia chi t'engeneró! Quanto tu aie oggie mor-
morato! — E lo fedele dicie: — Non vedete voie che è
presso a la notte? — E Vivante vede biene che suo fedele
dicie biene e dicie: — Vasallo, io era più contento che io
fosse puoie che me partio da mia terra, peró che io sono
essuto a Troia e vidde lo re Priamo e Oettorre e Paris e
Troiolo e tutte suoie figliuoglie e loro dame, e tutta nostra
terra era reposta, e erave tutti li buone troiane: ora sono
io qui a quiste parte. — E mentre dicie quiste parole non
puote tenere la testa alta sopra de sé, peró che li omore
«calde erano sopre suo capo ed era molto agravato: oggie li

(1) Anche qui non tentiamo di correggere.
(2) ms. che

(3) ms. a.sopra vi stie, di dubbia lezione.
(4) Nel ms. si legge poco sicuramente bo.

(0) Sopprimiamo un ce.

GREEK TE a ER 1.

4 DE
ME

.

CNET us 77m ate doct X -—
vd, t -

Cue *— e )

114 M. CATALANO

medicie dicono e apellano febre. E dicie a lo vasallo: — Io
serò tantosto en quille parte duve sonno li mieie belli cita-
dine troiane. — E lo fedele dicie: — Scire, que è quisto.
che voie dicete? — E ello responde: — Io sono empedito
a tale modo che io non credo (c. 87 v) podere andare al
castello. — E lo vasallo molto lo confortava. E a piano
passo (1) e' vanno verso lo castello e senga nulla caccia-
gione. E quando Coragino e sua dama veggono Vivante tor-
nare senca caccia, fanno alquanto alegregca e dicono a luie:
— Molte annimale hanno la vita che non n'avete voluto
ofendere. — E Vivante se viene a loro apressando. Ello
avea suo colore cambiato e era molto cambiato e rosso per
lo colore de sua febre e tantosto se ne va a sua cambra. E.
quillo fedele duceva suoie animali da caccia e, perché sapea
suo eonvenente, tantosto se ne va a la gambra de Vivante
e alquanto luie serve. E ello se mette a-lletto e tantosto ne
va a Coragino e a sua dama e dicie a loro el convenente ;
e anche v'era Forandano e suo falconiere. E tantosto vanno
a sua cambra e truovano Vivante ch'era andato a suo letto.

Solina (2), dama de Coragino, [dicie]: — Duv'é Vivante?
non sono coteste le novelle che noie aspettevamo quista sera.
Que moda sonno quiste? — E va verso luie e tantosto lo
toca. Esso era molto enfocato de suo calore e de sua enfer-
metade e, mentre erano en tale nove (8) parole, Vivante e
Coragino e Forandano fanno (4) a luie demando que quisto
fosse. E Vivante responde: — Io sono quisto giorno estato
ella cità de Troia e vidde lo re Priamo, Ecubba sua dama,
e vidde Ettor e Paris e Troiolo e tutte li barone troiane: e
tutta nostra terra reposta e refatta. — E alora Coragino di-
cie: — Non puoie valere a te nullo modo trarre de la mente

(1) ms. passa
(2) ms. salina
(8) nove è di dubbia lettura.

(4) ms. efanno
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 115

quiste cose e avemo fatto quillo che aie voluto e fatto bello
castello en (1) la cità de Peroscia e aggiote pregato che
quanto aggio poduto che tu esche de tale pensiere. — E
tantosto Coragino alquanto se parte ira(c. 887)to e puoie,
passata la notte e venuto l'altro giorno, apellano uno caro
loro fedele e tantosto lo mandano a la cità de Peroscia a
Uliste che dica tale convenente. E lo vasallo cosi fa che
tantosto va verso la cità de Peroscia e tutto elfatto aconta
a Uliste, che avea molte cose como uom proveduto de con-
fortare, e feglie dare molte cose da confortare e dicie a lo
vasallo: — Dite che Vivante venga qua a prendere con-
forto. — E lo vasallo tantosto se parte e viene a lo castello
con molte cose da prendere conforto e, quando è gionto a
lo castello, tantosto va verso la cambra de Vivante e dicie:
— Io vengo da Uliste e disse como voie prendiate alquanto
conforto e como voie andiate verso la cità de Peroscia e
conselglia tante e buone conforte. — E Vivante alquanto ne
prende e puoie parla e dicie: — Mio corpo non vuole più
cose mundane; anche mio espirto se vole partire da mio
corpo per avere cibo angelico, e mio corpo non vole più
cibo, anche esso vuole essere cibo de verme, sicché a que-
sta volta più nou bisongna conforto. — E quando Coragino
e sua dama entendono tale parole, fanno grande tristitia e
piangendo se parteno da la cambra de Vivante. E Forandano
non se parte de sua cambra e sempre lo conforta come suo
figliuolo. E quando viene lo tergo giorno, lo spirto de Vi-
vante se parte e remane suo corpo de suo calore freddo. E
tantosto Coragino manda uno suo vasallo a (2) Uliste e l'altro
vasallo manda tosto a lo conte del Laco e [fa annunciare]
como vuole partire lo corpo de Vivante a la cità de Peroscia
al tempio de Uliste. E lo conte, quando entende tale novelle,

con molta gente se veste con drappe nere con tutta sua.
116 j M. CATALANO

gente e vienne a lo castello de Coragino. E non serebbe
corpo umano che dire podesse tanta lamentela, corotto e
pianto, ma non se puote estare a quiste parte, perchè lo
corpo per tro-(c. 88 e)ppo estare non rendesse impedimento
a l'odorato. E Coragino, ch'ave fatto aparecchiare uno bello
caro, con drappe de seta nere [ave] coperto lo carro e l'an-
nimale che menavano lo carro. E anco vi va Coragino e
sua dama e Forandano e suo falconiere e quase tutte suoie
fedeglie, vestite de drappe nere de seta, e manda uno suo
fedele a Uliste ad acontarlo lo fatto como era. E alora Uliste
con tutte li barone troiane li si fanno a lo contro, tutte ve-
stite di drappe nere, e puoie coloro recontravano, se fa grande
pianto e strita e lamento; e cosi vanno (1) al castello de U-
liste ch'avea a la citade e li fanno grande corotto fine che
tutte li troiane e loro dame ve sonno venute. E puoie fanno
Vivante portare a lo tempio de Uliste con tanto pianto che
non fo maie al mondo veduto e fanno luie (2) sopellire sotto
a l’altare grande del tempio, en quale se facea sacrefitio. E
dicie l'autore che quillo fo lo primo troiano che fosse so-
pellito a quillo tempio. E Forandano fa tanto lamento e
pianto sopra lo sepolcro de Vivante che maie seria uomo
ehe non se movesse a pianto; e non se volea partire de
suo sepolcro e si andava a la abitatione del castello de Co-
ragino. Esso fa tanto pianto e lamento che omne persona
permuove a pianto. E cosi fa la dama de Coragino, che sempre
piangeva suo bello cugnato, e quando li dame troiane anda-
vano dicendo el-loro pianto: — Como farite de tanto bello
cognato? — (3) quisto era quillo che più la ’nduceva a pianto.
E alora Uliste, vedendo tale convenente, depo passato el
terco giorno che glie troiane n'erano estate a l'abitatione de
Coragino per dare a luie espasso con escacche e altre giuo-

(1) ms. fanno
(2) ms. a fanno aluie

(8) Sopprimiamo un e.


IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO JH NT

che, tantosto se parteno e col conte e Forandano vanno (1)
al castello de Coragino e, puoie che sonno gionte, se renuova
loro pianto e lamento che la dama de Coragino e Forandano
con vocie grande de pianto chiamavano Vivante (c. 897),
bello dongello, dicendo: — O bello dongello Vivante, duve
sete? (2) Como avete noie abandonato che altro deletto nonn-
avevamo al mondo? — O bello mio figliuolo, — diceva Fo-
randano — co à fortuna poduto tanto fare che m’aggia tolto
tanto bene? — E cosi vanno celando loro vise per pianto.

Cap. XX. — Come Uliste conforta Coragino e li fedele troiane
fanno tanto pianto per la morte de Vivante.

Ora dicie lo conto como Euliste per loro confortare di-
cie: — Scire Coragino, io non venne maie a tuo castello,
mo al presente vue, vostra dama e Forandano e vostro fal-
coniere me doniate pianto e anco a sire conte, peró che
Vivante non sé puote più riavere (3) e anco noie conviene
andare verso de luie. — E molte parole parla Euliste e lo
conte con molte altre barone a loro confortare. E dicie l'au-
tore che li fedele fanno tanto pianto per tale convenente
che fanno piangere loro singnore e così fanno tutte li tro-
iane, però che quando Vivante trovava nullo troiano, se
fosse estato singnore o vero fedele, esso ponea loro braccia
a collo e piangeva de sua bella citade Troia e molto se
confortava quando podea estare colli troiane e amava loro,
tanto che omne troiano volea luie grande biene e portavano
a luie grande amore.

*

(1) ms. evanno
(2) ms. nonuesete

ms. rauere
TE IPSE. *
" X

118 M. CATALANO

Cap. XXI. — Come Uliste, lo conte e Forandano prendono
molta cacciagione al piano de quattro focie e come Fo-
randano manda tante salute a la dama del Lago.

Ora dicie lo eonto che Uliste e lo conte e gli altre ba-
rone troiane, quando sonno estate tre giorne, e Forandano
e ' faleoniere vanno a la cità verso el piano de quattro
focie al fiume de la Caina. E li, per l’acqua, molta caccia-
gione ve se trovava, cervi e gavriuoglie e porcie senguia-
glie e molte ucelglie d’acqua. E vannose a spasso Euliste e
lo conte e altre barone troiane per dare espasso a Coragino
e dicie l’autore che molia cacciagione (1) prendono. E molto
pianto fa quillo giorno Forandano: con esso avea suo lione
a mano, a la catena: dicendo (2) abracciava quillo lione:
— Ora non ci è el bello dongello Vivante. — E dicie l'au-
tore como quillo lione bene lo ’ntendea, ma che non sa par-
lare: veramente mustrava tristitia. E puoie che ànno presa
molta caccia (3), se ne vanno verso el castello e lo conte
prende comiato da Coragino. Euliste con pianto se parte e
va verso suo paiese e Forandano fa grande dono a suoie
fedeglie (c. 89 v) de selvagina caccia e puoie dicie: — Por-
tate quante salute se possono mandare a madama. — En
cotale convenente se parte e va verso lo laco. E quando sua
donna vidde suo scire lo conte, demanda de novelle e quillo
barone, che avea le salute de Forandano, dicie: — Dama,
Forandano per me mandave quante salute ve puote mandare
e en quisto me disse con vocie de pianto. — E quilla dama
faceva de sé bella saluta e, puoie che entese tale novelle,
grande pianto [facea] e dicea: — Como à poduto fortuna

(1) Il ms. ripete e dicie l’autore che molta chacciagione.

(2) Sopprimiamo un’ e.

(3) Nel ms. segue la parola evolgeno. Che sia da correggere: volgeno e
= ritornano ?

pinta ieri ci iii at iii.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 119

tanto male sostenere? — E molto fa grande lamento la dama
e lo conte.

Cap. XXII. — Come Uliste se parte verso la città de Peroscia
con molta cacciagione.

Mo (1) dicie lo conto (2) che Uliste e li barone troiane,
Coragino e sua famelglia, Forandano, el falconiere e tutta
sente tornava da la caccia con molta selvagina e ucellagione
e se none per la molta trestitia de Vivante ch’ era morto,
averebbero auta bella gioia e bello espasso, tanta caccia-

gione aveno presa. E dicie Uliste: — Quisto è bello paiese
da caccia e bella estantia. — E alquanto prendono conforto

e fanno bello mangiare e nobele. E quando passa la notte
e viene lo giorno, Euliste se parte e viene verso la cità de
Peroscia e tutti li barone troiane portano molta cacciagione
e assaie. E alquanto Euliste dicie a sua dama e altre barone
de la bellecca e de la bella estantia de lo castello de Cora-
gino e como anno lassata dama Lasolina e suo grande pianto
e como lo conte se partio e andò a suo paiese.

Cap. XXIII. — Come Coragino e sua dama ànno una bella
filglia e come lo conte de lo Laco ebbe doie figliuoglie.

Ora dicie lo conto che, stato per lungo tempo, Coragino
e sua dama ànno una bella filglia, quale ebbe nome Candida
e come lo conte de lo Laco ebbe doie suoie figliuoglie, de
quaglie l’uno ebbe [nome] Achino e l’altro ebbe nome Novitio.
E quillo Acquino tolse per dama una contessa de le parte
de mericco verso la marina, dove era suto lo re Turno verso
Savina (3) e fecie uno castello, quale se chiama Acquino, dei

(1) ms. Ma
(2) ms. chonte

(3) Cosi il ms. Lavinia ?

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120 M. CATALANO

quali desciese, dicie l'autóre, puoie glie conte d' Acquino, e
sancto Tomasso d'Acquino.

CAP. XXIV. — Come el conte de lo Laco e Coragino fanno
parentado.

(c. 907) Ora dicie lo conto che, stato lungo tempo, Can-
dida (1) polcella de Coragino, era la piü bella polcella che
fosse a quillo tempo nel paese e niuro era bello doncello
ch» era el figliuolo de lo conte. E quiste fantine non s'erano-
maie vedute, ma, odendose recordare a loro padre e madre,
se portavano molto amore e ciascheduno pregava Eddio che li
loro padre daessero l'uno a l'altro e, quando udivano per la
corte recordare l'uno l'altro, tutte loro vise se fiambano
d'amore. E.à uno giorno Forandano, che era savio uomo,
recordando Novitio, Candida (2) tutta empalladío e cambió
suo fresco colore. E Forandano disse a la po:cella: — Como
è ciò, che aie tu sentito voie nulla novetade? — E Candida
responde: — None altro non saccio quillo che io me sento.
— E pertanto. la polcella se parte e Forandano pensa: —
Que serebbe quisto? Averebbe quista amore a nullo uomo
del mondo? — E tantosto se ne va a sua bella dama, madre
de Candida, e dicie (3) tutto el convenente. E la dama La-
solina dicie a Forandano: — Avereste tu parlato niente de
alcuno dongello? — E Forandano dicie: — Dama, si — E
quilla dicie: — De quale doncello avete voie parlato niente?
— E Forandano dicie: — Io parlava de Novitio, figliuolo de
lo conte nostro amico. — Entanto (4) la dama dicie a Fo-
randano: — Lassame fare a me che io la Saperó biene. —
E Forandano va a suo afare. E la dama de Coragino a uno

(1) ms. echandida
(2) ms. echandida
(3) ms. dicio

s. etanto
TE

IL ROMLNZO DI PERUGIA E CORCIANO 121

giorno apella sua bella figlia e dicie: — Nostro scire Cora-

gino (1) te vole maritare a la cità de Peroscia a lo figliuolo
de uno troiano. — E Candida ponto non responde, ma dicie:
— Non volglio marito. — — Como? — dicie sua mate —
quisto per certo non puote remanere che noie volemo che
memoria sia al mondo. — E pertanto più nolla adesca e
quisto fatto dicie Solina a suo scire Coragino. E Coragino
tantosto responde: — Se-lglie fosse en piacere Novitio, credo
che lo conte lo faria per nostro amore.— E dama Lasolina:
— Piaceve che io ciò tocche a Candida? — Dice Coragino:
(c. 90v) — [Fate] quillo che ve piace. — E quando venne
lo giorno, dama Lasolina apella sua bella filglia Candida e
sì-lle dicie: — Quillo io te disse: tuo padre e io te volemo
maritare e se avete udito ricordare nullo dongello che ve
sia en piacere. — E Candida dicie: — Qui nonn-é mia re-
sposta: tanto dico che io non volglio figliuolo de Troia, però
che non volglio sempre estare en pianto. — E alora dicie
sua madre: — Ebbo enteso che Novitio, filglio de lo conte
del Laco è bello e buono doncello: quando (2) ve piacesse,
noie lo precoreriamo. — E la polcella non responde, ma fa
sembianca (3) che sia contenta. E la dama de Coragino dicie
a suo singnore: — Io me aviso che Candida vorrebbe per
suo marito Novitio, filglio de lo conte. — E Coragino pone
cura a quille parole e a poche giorne manda Forandano.
Cosi fa e va a lo laco e conta tale novelle a lo conte e sua

dama. E lo conte, senca altro indutio, ciò a luie promette e-

en tale manera fanno parentado de Novitio e de Candida.

E dicie l'autore che Novitio e la polcella Candida sonno:

molte contente, puoie che fatta fo tale promissione.

(1) Segue un che da noi soppresso.
(2) ms. quanto

(8) ms. sembranga

i «NO RADO. ito

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9
Od UR S c ab Mico nn

E audi

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rmm lin

«| 22 M. CATALANO

‘CAP. XXV. — Como viene una grande mortalità encontra li
troiane e como muore Uliste.

Ora dicie lo conto como una grande mortalità viene
verso encontra li troiane ch’erano en Italia e como muore
a tale tempo Coragino e sua dama; e anche muore a tale (1)
lo conte e sua dama nante che Novitio s'adune con sua dama
Candida; e como a tale tempo muore Uliste e li altre tro-

RTRT APR ERO

iane. E dicie l’autore che Uliste, quando venne a la morte, Î
prende quillo Palladionne, ovvero Lapiadon, perochè è en- È

visibele, e, quando veune en Troia da cielo, non se lassava
vedere se none a Toasse, quillo che sacrificava a lo tem-
pio (2). Che fosse pietra dicono (3) molte, ché solo angelo è
duve è suo corpo; e alcuno dicono ch'é pallion tanto sotile
s che è envisibile; e co è envisibele, è 'ngroluppato (4). Alcuno
dicie como ello è nella torre, quale (c. 917) è anche en
pieie; e tale torre erano sette en quillo castello. Biene te |
dico che dal maggio a lo setembre é uno giorno, quale da
la mecca terca ala terca fiere el sole per una finestra de lo
tempio en quille porte duve està quisto sengno Palladion
overo Lapedario; e en quillo giorno lo sole é molto sanguineo
e non à suo fermo colore.

^

CAP. XXVI. — Come de Novitio e Candida desciero molte e
come l'ultimo de tale gente fo Cornaletto.

Mo dicie lo conto che puoie che fo passato uno anno
depo la morte de Coragino e de sua dama e anche del conte (5),

| (1) Sottintendi : tempo.

(2) ms. tempo

(8) ms. dichonono

(4) Passo oscuro e confuso. Il senso generale peró s'intende a un di-
presso: l'autore vuol dire che il Palladio è di puro spirito e ravvolto nel
mistero.

(5) Sopprimiamo un inutile chomo.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 123

Novitio mena a sua corte la polcella Candida e stanno en-
sieme a grande deletto e per lungo tempo. E (1) l'autore
dicie como Novitio està più tempo a Corciano (2) che nonne
està a lo laco e como visse[ro] ensieme più de cento angne e
ebbe[ro] (3) uno loro figliuolo che ebbe nome Coragino, del
quale dicie l’autore che desciero molte altre, quale tutte qui
non ha scritto (4), fine che desciese Cornaletto. E quisto fo l’ul-
timo de tale gente e fo quillo che fo puoie cristiano e fo
battisato e abattuto da lo conte Orlando, nepote de Carlo
mangno, e per quale modo lo castello de Coragino ebbe l’arme
del quartiere del conte Orlando, quando Oliviere fo pregione
de l'Aregolglioso de Persia. Sichè l'autore dicie che, quando
el conte Orlando ve va a securrere Orleviere de Vienna
suo cognato, passando per quille parte de Corciano, Corna-
letto glie uscio adosso e alora fo abattuto Cornaletto dal
conte Orlando. E per tale modo che Cornaletto nonn-aban-
donò puoie maie Orlando conte, fine che Orlando fo a la
cità de Peroscia e [ebbe] abattuto l'Oregolglioso de Persia,
che era estato da molto che ebbe en pregione Orleviere per
avere per molglie la polgella Prosemana, che era desciesa
di li troiane (5), che pusero la cità de Peroscia. E quisto
Cornaletto non se parti da lo conte Orlando [fine] che lo
conte deliberó Orleviere, che era en pregione ella cità de
Peroscia per enganno de l' Aregolglioso: e como Orleviere
ebbe per molglie la. polgella Prosemana e perció el popolo
de Peroscia ebbe l arme del grifone. E puoie (6) che tutta
la cità de Peroscia fo fatta (c. 91v) cristiana, perché con-
venne che vencesse Carlo che era ad oste en-nelle parte de

(1) ms. che

(2) ms. echoragino

(3) ms. ebbero ha |’ ultima sillaba cancellata.
(4) ms. ssrutto

(5) ms. troiano

6) ms. puoieie
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4 124 M. CATALANO

Lombardia a una cità ch'avea nome Cuma, che era terra de
eretecie (1); e puoie che fu battisata tutta la cità de Peroscia
e Orlando fecie morire l’Aregolglioso, e Orleviere de Vienna
ebbe per molglie la bella Prosemana, fo per forca de Carlo
e de suoie palladine fatta battisare tutta la valle de-Sspolete
per fine a Roma. E puoie che fuoro estate a Roma per alcuno
tempo, se partío dal sommo pontifecie e tornò el. Lombardia,
duve en prima estava ad oste e fo entorno a la cità de Coina,
terra de eretecie, en fine (2) fo morto a la batalglia quisto
Cornaletto da Corciano e (3) quilla cità fo presa da Carlo e
fo arsa e guasta. Puoie dicie lo livero romano (4)*de Carlo
e di le palladine, como terre (9) eretecie repusero puoie
quilla cità, perfine che venne sancto Pietro Martore, biene
che esse fierono morire quisto sancto Pietro Martore, perchè
esso predecava de le fede de Cristo. E quisto sancto escrisse
el Credo en Dio collo sangue che esso sparse al tempo che
quilglie eretecie lo (6) fecero morire; e fo puoie canonecato
da la chesia per sua santità qui sit supremadiutorio nostro qui
est benedittus in secula seculorum. Amen (1).

CAP. XXVII. — Per che modo lo popolo de Peroscia ebbe

l'arme del grifone e come fuoro trovate l'arme de le porte
de Peroscia.

Ora dicie lo conto como Orleviere fo preso da l'Oregol-
glioso de Persia e per que modo e como la polcella Prose-

(1) Cuma (e più sotto Coma e Comuna) sarà da identificare con Como.
(in lat. Cumae), che nel sec. XII fu distrutta dal Federico Barbarossa.

(2) ms. esine

(9) ms. en

(4) Il Degli Azzi stampa /'Olivero romano, che crede nome di un ero-
nista o romanziere, ma il nostro chiama più volte la sua fonte col nome
di livero (libro).

(5) Intendi: popoli.

(6) ms. che

(7) Grazioso saggio di latino che fa il paio con quello di donna Bisodia
del Boccaccio.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 125

mana s'ennamoró d'Orleviere e como lo conte lo deliberò de

pregione de l’Oregolglioso, come àvve per molglie Orleviere

quista polgella e per che medo lo popolo de Peroscia ebbe

l'arme del grifone e per che modo l'Aregolglioso ebbe nome
l’Aregoglioso de Persia, che fo natio d' Amelia. E quisto è
biene chiaro per lo Romano, quale favella de Carlo e de
suoie palladine e anco nel Brettone, quale é cronica de tale
dire, e conterà de l'arme de le porte de Peroscia e per que
modo fuoro trovate Porta Soglie el sole, Porta (1) Sancto
Angnolo el cavallo, Porta Sansanne l'orso, Porta Borgne el
cervio, Porta San Pietro el lione (2). Seguitano mo glie mode
(c. 92r) de Orleviere e de l’ Aregolglioso e como fatta fo
cristiana tutta la gente, e como la polcella Prosemana en-
gannò l'Aregolelioso, quale se chiamò l'Aregolglioso da Per-
sia e fo natio d' Amelia e fo singnore del Ducato e co per
la polcella Prosemana morio per savere de la polcella.

CAP. XXVIII. — Come l'Argoglioso venne a oste a la cità de
Peroscia per avere la polcella Prosemana per sua esposa.

Mo dicie lo conto como uno nobele uomo, quale era de-
scieso de la gente de Landorno troiano, e quase per sua
bontade era singnore de la cità de Peroscia, che non se fa-
cea ella cità se none quillo che esso conselgliava, tanto era
amadore del suo comuno. E quisto avea una sua sola figliuola,
che avea nome la polcella Prosemana, ed era alora la più
bella che se sapesse per lo mondo. A poco tempo morio
quisto suo padre tanto liale a suo comuno e remase quista

(1) ms. porto

(2) Perugia ab antiquo è stata divisa in cinque porte o quartieri : Porta
Sole, Porta S. Susanna (Sasanne e Sansanne nel nostro testo), Porta S. An-
gelo, Porta S. Pietro, Porta Burnea o Eburnea (Borgne nel romanzo). Ma
delle insegne non si ha memoria che di quella del Sole. Secondo il Crispolti

(Perugia augusta, Perugia, 1648, p. 6) al Leone era soggetta la città vecchia.

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Lr ratem m i tm 126 M. CATALANO

sua figliuola, e racomandóla (1) molto aglie maiure de la
terra overo citade. E avea uno suo fratello consobrino la
polgella, che avea nome Golia, e era molto fanciullo, che
podea avere, secondo che dicie l’autore, XV angne, non più,
quando lo padre de la polgella Prosemana morio. E como lo
padre de la polcella Prosemana morio, venne asaputo a l’O-
regolglioso, che era singnore de Amelia e de tutto el Ducato;
e odendo tante bellecce e savere de la polcella e odendo
como suo padre era morto, pensò d’averla per sua esposa e
donna; e fecie adunare molta gente a pieie e a cavallo, e
venne a oste a la cità de Peroscia e puse suo campo dove
che é, mo se dicie, el Ponte de San Giangnie (2); e tantosto
mandò suoie ambasiadore (3) a la cità de Peroscia, notefi-
cando como esso era ad oste li al ponte, none per fare nullo
danno, fine avuta la resposta, e como mo esso vole per buono
amore la polcella Prosemana per sua legetema esposa e
donna, e non per niuno altro male modo, e vole la singnoria
e titolo de la cità, e altramente faria lo guasto a loro (c. 92 v)
bene de fuoco e.d'altro, sicchè l'averebbe per forca, e terria
puoie per amica e non per donna.

Cap. XXIX. — Como li ambasciatore de l’Argoglioso con-
taro loro embasciata e Golia respuse loro.

Mo si è quista: como quilglie de la cità fiero cinque
capetanie e fecero cinque gonfalone, como de sopre avete
udito, che Porta Sole avea el sole, e Porta Sancto Angnolo
el cavallo, e Porta Sansanne l’orso, e Porta Borgne el cervio,
e Porta San Pietro el lione. E quase ciascuna porta faceva
sua guarda con suoie capetanie, sempre uno di e una notte
per ciascuno capetanio. Mo dicie lo conto che li ambascia-

(1) ms. era chomo mandola
(2) Ponte S. Giovanni, sul Tevere.
(3) ms. abasiadore
pari siae aci VS mm —
: * È SEEING RIVA TRPPIES

IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 127

dore de l' Aregolglioso expusero loro embasciada, e fecero
adunare quilglie che portavano el tutto al castello, overo
tempio de sancto Lorengo (1); e quando ebbero cosi con-
tata loro embasciada, erave Golia, fratello consobrino de la
polcella Prosemana: tantosto se lieva en pieie e disse: —
Se io non fosse tanto giovene quanto io so’, l’ Aregolglioso-
non faria né demanderia quillo che domanda e, prima che
esso podesse avere mia sorella per forga, prima l'ancederia. —

Cap. XXX. — Come la polcella Prosemana respuse aglie am-
basciadore de l'Argoglioso.

Ora dicie lo conto como glie magiure de la terra fanno

loro conselglio e dicono entra loro: — Como podemo noie:

restare a l’Aregolglioso per ciò "che nonn-avemo altro sin-
gnore ? — E consegliato fo tra loro como se parlasse a la
polcella che glie piacesse de togliere l'Aregolglioso per suo
exsposo — che noie non veniamo a tanto che esso l’avesse
per forca, e tenessete per altro modo che per polgella e
donna legetema, perciò che prima vorriamo tutte morire.
— E la polgella, vedendo che quille de la cità cosi parlavano,
non parea aliei che possa essere vigorosamente aitata (2)
che de tale fatto possa escampare e dicie a suo fratello :
— Golia mio fratello, como posso fare che la cità non sia
commessa, né anco io non venga a le mano a l’Argoglioso,
perchè io prima volglio morire? — E dicie: — Io credo
che sia melglio per nostro escampo : così voglio fare (3) quillo
che esso ademanda, salvo che prima me mene doie palla-

(1) È appena il caso di ricordare che negli antichi comuni le generali
assemblee venivan tenute nelle chiese. Così pure & Perugia, finché fu co-

struito il Palazzo del Popolo.
(2) Ho dovuto raddrizzare le storture del ms. che dà la seguente lezione :

che esse vigorosamente aitata possa che.

(3) Sopprimo un e.

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CIO UA S c ca TERMICA. i BORSE des APESSSUREELS

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A USER "ua.

—— —

| 128 M. CATALANO E

dine (c. 93») de Carlo pregione e en altro modo non con-
sentiria el-luie, e per aventura esso serebbe de la gente de à

Carlo morto. — E pertanto Golia dicie: — Bene avete pen-
sato. — E cosi fo fatta la resposta a quille ambasciatore de

l Argoglioso e, quando l'Argoglioso udio tale convenente,
pensa e dicie che vole volontiere fare, ma prima vole el
titolo de la cità de Peroscia e vuole essere chiamato l'Are-
golglioso de Persia, altramente quisto non faria.

TRECE TOO

CAP. XXXI. — Come l’Argoglioso entrò en la cità de Peroscia
con doie compagne ed ebbe el titolo de la terra.

TOUTDRERTISERCSNS

Ora dicie lo conto como quisto fo ditto a la polcella e a
quilelie che regevano la cità e fo deliberato cosi fare : e alora
l'Argoglioso venne a la cità e como non podesse entrare a
la cità dentro se non con doie compangne e cosi fo fermato.
E alora entró ella cità e esse glie diero el titolo de la terra
en tale forma, se esso menasse prima en pregione doie dei
palladine de Carlo de Francia, e cosi promise de fare. E
esse lo menaro al tempio, quale é ogge chiamato sancto
Lorengo, e levaro una bachetta aurea de l’altare e puserla
en mano de l'Argoglioso en sengno de titolo de singnoria :
acanto fo Golia, fratello de la polcella Prosemana. E tanto
dicie l'Argoglioso che voleva vedere la Polcella, e suo fra-
tello e più altre citadine vanno per la polcella e menano
lieie al tempio biene fornita de robbe e de quille che a tale
polcella se conviene. E quando 1’ Aregolglioso vidde la pol-
cella, se prima era de lieie ennamorato, alora, dicie lo conto, |
fo tanto preso de lieie che non trovava luoco né di né notte
e pensa pure de venire al fine la polgella en singnoria.

CAP. XXXII. -— Come l'Argoglioso va en Lombardia al campo
de re Carlo

Mo dicie lo conto che Carlo mangno era ad oste el-
Lombardia a una citade ereticie, ch'avea nome Comuna. E

————— o————ORÓ

e Mie

è ^ VOTETNERETISENOSUS

IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 129

«quisto Argoglioso, sapendo como Carlo era ad oste el-Lombar-

bia, fo molto alegro e tantosto se parte con sua gente e va
verso quille parte dove Carlo estava ad oste; e quando fo
presso a quille parte per suoie giornate (1) se puse a uno
grande colle, siché esso podea vedere tutto l'oste de Carlo,
e per maestrevelemente (2) el colle (3) facea parere che
fossero più gente che noun-erano. E puoie che l'Argoglioso
fo posato alcuno giorno, non troppo per gelosia che avea
tosto a tornare a la (c. 98 v) polgella per averla a suo domi-
nio, fa bandire e va al campo che Carlo glie mande doie
suoie barone per combattere.

CAP. XXXIII. — Come uno figliuolo de Carlo fo abattuto da
l'Argoglioso.

Ora dicie lo conto 'como uno figliuolo de Carlo, quale
nonn-era tra lo numero dei palladine, ademanda a Carlo el
guanto e va a combattere collo Argoglioso, siché de l'Ar-
goglioso fo la ventura, che esso abatteo quisto figliuolo de
‘Carlo, perché, quando vennero a la giostra, l'Argoglioso de-
mandò luie se esso era deglie palladine e quillo respuse del
si. E quando l'ebbe abattuto, tantosto senca demoro lo mena
a suo padilglione e fa comandare che sia bene guardato e
bene servito e tantosto torna al campo e suona suo corno
«che Carlo mande a luie giostra e [Orleviere] va a Carlo e
demanda el guanto per andare.

«OAaP. XXXIV. — Come l’Argoglioso abatte Orleviere de Vienna
e partese con i doie pregione.

Ora dicie le conto che lo marchese Orleviere a quilla
batalglia Carlo gliele dava; e come Orleviere de Vienna

(1) Per suo cammino ?
(2) Non correggiamo. Il senso dev'essere: si accampó con tanta mae-
stria su di un colle che sembrava avesse con lui molta più gente del vero.

(8) Sopprimiamo un che.

S í OD AMNEM. TR. x

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130 M. CATALANO

ebbe lo guanto, tantosto fo armato, e monta a cavallo en-
verso l'Argoglioso e fa suo saluto. E l'Argoglioso rende suo
saluto e domanda luie se elgli era dei palladine de Carlo e
quillo responde del sì. E alora tantosto prendono loro campo
e vanse a ferire. E pertanto, como fortuna permise, fo abat-
tuto Orleviere de l'Argoglioso. E quando l’Argoglioso àvve
abattuto Orleviere, tantosto lo mena a suo padilglione e co-
manda che sieno biene guardate e non torna più quisto
giorno a la giostra: nante pensa come esso se possa par-
tire con quiste pregione per adempire sua volontade colla
polgella e aconcia suoie eschiere e partese con quiste doie
pregione. .

Mo dicie lo conto che, come fo fatta la notte, partese.
con li pregione (1) per gelosia ch'avea d'amore de la pol-
cella Prosemana. E tanto va cavalcando en giorno en giorno,
passa piane e monte che giongne a la citade de Peroscia
con quiste doie pregione e dicie come sonno doie deglie
melgliore palladine che aggia Carlo en sua corte e dicie
che vuole la polgella a suo dominio.

Cap. XXXV. — Come l’Argoglioso dona le pregione a la pol
cella e come la polcella se prese de amore de Orleviere.

(c. 94 r) Ora dicie lo conto como, quando la polcella e

suo fratello ciò viddero, fuoro molte dolente e quase cascano

del pianto, ma l'Argolglioso dona quiste pregione a la pol-
cella e quilla li mette en sua pregione non forte (2); * che;
come la polcella vidde Orleviere, fo presa de suo amore e
puoie demanda degli altre palladine, e se da loro credono
essere secorse, e dicie a loro tutte suoie convenente e como
se farebbe volentiere cristiana, se podesse escampare de le

(1) Nel ms., in luogo di partese con li pregione, si legge soltanto en pri-
gione.

(2) Cioè : non rigorosa.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 131

mano de l'Aregolglioso. E.alora dicie Orleviere a la polcella:
—: Non sonno tante cinque giorne da oggie che qui serà lo
conte Orlando, falcone de crestenta (1), e converrà che l'Ar-
goglioso combatta colluie se non se vorrà fare cristiano :
nollo escamperia (2) tutto l'oro del mondo che nol-lo facesse
morire, perchè nonn-è d'uganga de buono guerriere fugire
quando abatte alcuno cavaliere da furta parte (3).

Cap. XXXVI. — Come la polcella vuole dare sua festa prima
de esposare l’Argoglioso.

Mo dicie lo conte che, como la polgella entese tale pa-
role, tantosto manda suo fratello Golia a l'Argolglioso e dicie
quale era sua entendanga. L'Argoglioso dicie a luie : — Vol.
glio la polgella a mio dominio. — Alora Golia respuse: —
Non siamo noie ghiottone nè vilane che deviamo così fare,
ché la polcella vuole, prima che voie l'aggiate a vostro do:
minio, dure (4) sua corte per nome de festa, e vuole fare:
asapere per tutto el paese de suo esposare e altramente
prima se lasseria ucidere. —

Cap. XXXVII. — Come l’Argoglioso fa bandire la festa e come
Orlando se parte per securrere Orleviere.

Ora dicie lo conto como, quando l'Argoglioso entese tale
convenente, pensa (5) che le parole sieno a buono fine per-
chè àvvero bello colore: dicie como esse così vuole e fa

(1) Intendi : fortissimo campione della cristianità.

(2) ms. esschaperia

(8) L'Orgoglioso non si era diportato da buon cavaliere, fuggendo con
i due prigionieri e impedendo cosi a Carlo Magno di prendere la ri-
vincita.

(4) dure = duri. Intendi : la-polzella voleva che le feste per le sue:
nozze durassero per molto tempo.

(5) ms. epensa

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132 M. CATALANO

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bandire la festa per XV giorne e anche la grande caccia
per avere en sua corte molte selvagine e fa bandire al ter-
mene de sposare sua dama. E como l’Argoglioso àvve cosi
ordenato, la (1) polcella sempre estava a parlare con Orle-
viere (e era biene servito senca mala pregione, esso e suo
conpagno), e sempre estava en solecetudene del securso che
venisse a Orleviere. Sequita (c. 94 v) lo conto : como lo conte
Orlando vidde che Orleviere era estato abattuto e menato en
pregione per cotale modo a furta parte, molto se coroccia
en sè medesemo e giura per Dio: — Che se andasse per
tutto el mondo, se ve serà mestiere, che io lo gionca e pa-
gherollo de sua follia. — E tantosto solo senga altro com-
pangno se parte e viene sempre deritto a l'Argolglioso, ma
nol puote giongnere, tanto l’Aregolglioso camina per lo biene
che volia a la polcella Prosemana; e perchè lo conte Or-
lando glie convenne fare molte giostre batalglie per lo ca-
mino nante che giongnesse a la cità de Peroscia, ma [con]
grande furore e con grande ira facea suo camino.

CAP. XXXVIII. — Come el conte Orlando gionse al castello
de Corciano e come Cornaletto non volea che andasse più
ennante.

Ora dicie lo conto como lo conte Orlando fo presso al
paiese de la cita de Peroscia ad uno castello, quale (2) de-
nante avemo ditto, quale à nome Corciano, duve era uno
nobele giovene e prode, quale era descieso de lo conte de
lo Laco e de Coragino, quale avea nome Cornaletto; e
quando quisto Cornaletto vidde passare lo conte Orlando,
non conosciendo luie, esciende tantosto del cavallo e de-
manda lo conte quale è suo camino e de quale paiese esso
era. E lo conte dicie como esso era uno cavaliere france-

(1) ms. e la

(2) Segue un e che sopprimo.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO

sco e va procurando sua ventura. E alora dicie Cornaletto :
— Tu se’ poco savio : che se tu arive a la cità de Peroscia,
tu saraie morto o pregione; perciò che v’ è uno singnore
che poche giorne sonno passate che esso menò doie palla-
dine de Carlo de Francia e se non è che io sono desar-
mato, io farebbe che tu nonn-andare più ennante a fatigare
en tuoie fatte l'Argoglioso. — E lo conte (1), che se reposava
a una acqua che era el-lo luoco de la Munachia (2), dicie
a lo dongello: — Se tu te vuole gire ad armare, jo t'aspetto
volontiere. — E quisto che lo conte dicie, solo lo fa perchè
lo dongello era molto bello e parea en suo parlare savio e
dicea: — Esso deverebbe essere prode uomo, sicchè se Dio
me facesse gratia che esso se facesse cristiano, de ciò seria
molto contento. — E, mentre està en tale pensiere, Corna-
letto (3) tantosto fo arrivato a quillo luoco, duve avea las-
sato lo conte Orlando, e dicie: — Scire, (c. 95 7) monta a
tuo destriere e prende tua lancia e siamo al campo, però
| che lungo tempo aggio auto volontade de combattere conn-
alcuno de quiste francesche se sonno cosi prode como se
dice. — E alora lo conte alquanto se, fe’ [ennante] e aveva
molto caro che esso ode quillo giovane tanto biene parlare
e tantosto el conte monta a suo destriere e prende sua lan-
cia e puoie dicie a lo dongello: — Umelmente prigote che
| tu te faccie cristiano e io te prometto se tu vorraie venire
en Francia, e se no avete donna, io te doneró bella donna
per tua esposa e averà città e castella. — Alora Cornaletto
responde e dicie en buona fede che: — È vero quillo che
io aggio udito dire: che tutte glie francesche sonno buone
predecatore de loro fede, ma biene ti dico, se tu m'abatte,
de farme cristiano e non abandonare maie che tu me mene

(1) Il ms. ripete elochonte.
(2) Denominazione non sopravvissuta.

(3) ms. echornaletto

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134 M. CATALANO

a vedere lo conte Orlando, ma la giostra non puote rema-
nere. —

CAP. XXXIX. — Come Orlando abatte Cornaletto e poi fallo
cavaliere e donaglie sua arme.

Mo dicie lo conto como lo conte Orlando avea grande
alegrecca: en suo coraggio avea grande pagura che a la gio-
stra nolglie venisse morto, ma pertanto, vedendo che altro
non puó fare, prende alquanto campo, pregando Eddio che
nolglie venisse morto e volta sua lancia e fiere da l'asta
Cornaletto e abattelo molto esconciamente. E stette per
grande pecca en terra tramortito e non sapea se era di o
notte. E lo conte va a la fontana e trasse suo elmo e porta
l’acqua e bulglia per la faccia a lo dongello, chè en poca
ora Cornaletto tornò en sè e puoie se lieva en pieie e va
verso lo conte e dicie: — Scire, bene è dengna cosa che
sia onorato, perchè voie sete prode uomo, ma pregove che
me diciate vostro nome. — E lo conte dicie : -- Mio nome
non podete ancora sapere, ma tosto lo saperaie. — E lo don-
cello dicie : — Volglio che ve piaccia de venire al castello:
alquanto ve poserete e puoie prenderete ad andare a vo-
stro camino; ma se ve piacie, volglio venire con voie e io
v'ansegneró tutto el convenente de la città de Peroscia e
duve està en pregione Orleviere. — El conte Orlando àvve
molto caro quille parole, prende el camino e va a suo ca-
stello, e Cornaletto fa a luie grande onore e puoie dicie che
lo faccia cristiano. El conte lo batigga e puoie dicie : — Io
te (1) farò ancora fare battisare al nostro ovescovo Torpino.
— E la notte dormiero ensieme e le conte manifestò suo
nome a Cornaletto e fallo cavaliere (c. 95 ») e donaglie sua
arme e perciò lo comuno de Corciano porta per arme el
quartiere.

(1) ms. le


©

vU

IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 135

CAP. XL. — Come la polgella seppe ch’ el conte Orlando era

venuto e come l’Argoglioso andò fuore de la porta ad en-
contrarlo.

Ora dice lo conto che, per la solecetudene che avea la
polcella per le parole che gli avea ditto Orleviere, se fecie
a sua finestra e resguarda fuore per lo prato, chè lo conte
Orlando avea sua lancia ritta posta, sicchè suo pennone,
per alquanto vento che alora l'aire avea, se vedea molto
da la lunga. E quando la' polcella Prosemana ciò vede, fo
molto alegra e tantosto se ne va a Orleviere e ademanda
luie que arme porta lo conte Orlando (1). E tantosto prende
suo messaggio e manda de fuore a la porta a sapere quale
gente è. Lo messaggio retorna tosto e disse en presentia de

Orleviero: — Elgli è uno cavaliere molto grande e dorme,
à (2) uno bello cavallo, e sua arme è el quartiere bianco e
vermelglio. — E alora Orleviere disse : — Dama, molto per

voie me ne ’ncrescie, perochè vostro marito serà morto;
però che è lo melgliore uomo che sia al mondo e falcone
de crestentade. — E la polcella, ch’ è savia, non podea suo
volere (3), ma lieie paria onne ora mille angne; € pertanto
la polcella non demora, chè tosto fa asapere a l'Argoglioso

como gente era a la porta, e dicie: — Io non pensava a-
vere tolto esposo per essere asediata a mia cità. Ma so io
più esventurata che nulla altra donna! —- E tanto ciò fecea,

che l'Argoglioso l'odisse (4) quille suoie parole; però che,
omne volta che l'Argolglioso la odea lamentare, per peggio
lavia che se-lglie fosse data d'una lancia per lo cuore. E
tantosto l'Argolglioso se curre ad armare e escie fuore de
la porta con molta grande soperbia e veneno e con male
volere verso lo conte Orlando.

(1) Il copista ripete distrettamente : e tantosto se ne va ... Orlando.
(2) ms. e.

(3) Intendi: non poteva nascondere la sua gioia.

(4) Il Degli Azzi stampa lo disse e il periodo non ha più senso.

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nt 136 M. CATALANO

CAP. XLI. — Come el conte Orlando abattè l'Argolglioso.

Ora dicie lo conto che, como l'Argoglioso fo a la porta L.
en (1) si grande soperbia, Cornaletto (2) va enverso lo conte j
e pienamente glie parla e dicie: — Scire, voie serrete tan- |
tosto asalito da l'Argoglioso, peró che esso é a la porta e
viene verso di voie. — E lo conte tantosto fo en pieie, e
ennante che lo conte Orlando montasse a cavallo, l' Argo-
glioso vi viene con grande soperbia e menaccie e dicie a
luie: como [à] auto ardire de (c. 96 ») venire a sua terra —
che io non sento uom en quisto mondo che de me non te-
messe e aggio en pregione doie palladine de Carlo e tu se-
raie a loro compangnia nella pregione? — E lo conte di-
cie: — Scire, io non credo che tu sie da tanto che; tu po-
desse avere en pregione el piü vile escudiere che Carlo
ane en sua stalla, e biene non vorria fare defesa, se tu fosse
de tanto ardire che tu avesse abattute doie dei palladine
de Carlo, ché io so essuto en Francia: non è niuno dei
suoie palladine che io non conosca; e tu se’ venuto e aie
menate doie briccone, e dicie che sonno suoie palladine, e
cosi avete engannata la polcella de quista citade. — E dicea
quiste parole por doie cose, dicie l'autore: perché avea
pagura che no-lglie avesse morte e perchè la polgella ]'o-
disse. E alora l'Argoglioso con grande soperbia torna a la
citade e fa trarre Orleviere e lo figliolo delo re de prigione
e menaglie de fuore de la porta legate. E puoie dice: —
Que te pare, cavaliere? Paionote quiste doie cavaliere de-
glie palladine de Carlo? — E allora lo conte Orlando broc-
cia suo destriere e fosse messo en mecco dei pregione e da
la citade, e puoie che esso fo en mecco, disse a l’Argolglioso:
— En buona fede io non credeva che tu fosse da tanto
ardire; ma puoie che tu l'aie menate de fuore de la citade,

(1) ms. e

(2) ms. echornaletto
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO . T9545

o tu non remeneraie niuno, o tu meneraie tre, se tu m'abatte.
— Entanto dicie a Cornaletto che elglie estia tra la porta e
i prigione; e Cornaletto cosi fa e anche el conte avea quilla
solecetudene. E l'Argoglioso prende suo campo e fosse de-
lungato e viensene a ferire al conte; e donse colle lancie
doie grande colpe, sicchè loro lancie fuoro rotte e misero
mano a le spade. E l'Argoglioso feria sopra el conte molto
nequitosamente e lo conte lassava dare suoie colpe e lo fil-
elio del re molte volte disse a Orleviere: — Orlando perde.
— Ma Orleviere, che sapea suoie mode, facea en suo cuore
grande festa. E pertanto lo conte sente l'Argoglioso molto
fiottare; disse a l'Argoglioso: — Vuolte tu battisare? — E
l'Argoglioso alora avea grande (c. 96 v) soperbia, ché prima
averia voluto morire che Orlando gli avesse ditte quille
parole, per la polgella Prosemana che lo stava a vedere, e
anco che avea enn-odio molto li cristiane. E dice l'autore
che molte grande exsmesurate colpe se lassò dare el conte
Orlando a l Argolglioso, credendo che se battisasse; ma
niente avea pensato che chi gli avesse dato tutto el mondo,
perché la polcella lo stava a vedere, non se seria arenduto (1).
E lo conte, vedendo che l'Argoglioso non se volea arendere,
prende Durindana conn-amendoro li mano e dalglie un colpo
sopra l'elmo ch’ el fesse fine ai dente. Alcuno dicie che lo
mise en mano ad Orleviere che l'ucedesse, perchè gli avea
fatta quilla engiuria de fuggire con esso; e alcuno dicie
che, quando glie prese Orleviere, che ad Orleviere cadde
suo cavallo, e esso per la gelosia che avea vaccio de tor-
nare a la polcella, nolo lasciò montare a cavallo e folglie
sopra col cavallo, e così el prese; e perciò Orlando, dicie
alcuno, che volse che Orleviere combattesse col-luie.

(1) ms. erenduto

--

SCESE

E > ——

i seen

CNET cae 138 M. CATALANO

Cap. XLII. — Come fo esposata la polcella da Orleviere e
come Orlando e Carlo feciero battisare tutte quilglie de la
cità de Peroscia.

Ora dicie lo conto como, quando la polgella vidde che
Orlando [avea] abattuto l'Argoglioso, puse suo amore al conte
Orlando e disse a Orleviere: — Io te prego, per quanto
servitio a te aggio fatto, che tu me die quillo cavaliere per
marito. — E alora Orleviere se ne rise e disse: — Maie
non toccó donna e anche é vergene puro: non bisogna aper-
dere parole. — E alora la polgella dicie: — Adonqua io
volglio essere tua esposa e prego che tu me faccie cristiana.
— E,puoie lo conte Orlando entró ella cità e fecie batti-
.sare la polcella e tutte quilglie de la cità; e fo esposata la
polcella da Orleviere. E tra quillo tempo, perchè Carlo avea
pagura de Orlando, che s'era partito solo, non posa de ca-
valcare notte e giorne fine che viene a la cità de Peroscia;
e quando gionse, era morto l'Argoglioso de Persia e sposata
la polgella Prosemana, e fatto n’ erano molte cristiane. E
puoie se ne battisaro molte, puoie che Carlo gionse; e per-
ciò el comuno de Peroscia àne l'arme del grifone che era
arme de Orleviere.

CAP. XLIII. — Come l'Apostolo sancto benedisse Carlo e tutta
sua gente e come Cornaletto morì en Lombardia.

(c. 97 ») Ora dicie lo conto como che fatta fo la grande
festa per la polcella Prosemana, se partio Carlo e entrò per
lo ducato e fecie battisare perfino a Roma, e puoie fo a l'A-
postolo sancto e benedisse luie e tutta sua gente. E demorò
per molto tempo a Roma e puoie retornò en Lombardia a
oste a la cità de Coma, che era de ereticie, e li cie diè de
molte grande batalglie e lì fo morto a la batalglia quillo
Cornaletto, e così finio sua gente; e Orleviere torna en Fran-
cia, e poco tempo puoie visse la polgella Prosemana, e la
cità remase a [lo] popolo.

(— MÀ
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 139

Cap. XLIV. — Come la cità de Peroscia fo liberata da omne
tributo, salvo le decime.

Mo dicie lo conto como la cità de Peroscia per amore
de la polgella Prosemana fo liberata da omne tributo che
devesse pagare per niuno tempo e del tempo che devea
venire; e fo deliberata da omne tributo temporale, salvo
che Carlo volse che non fosse liberata espirtualemente cosa
veruua se devesse pagare per nome de decima a li prelate,
quando che aspettasse a annema, tanto altro, cioè per modo
de decima ai preite secolare (1). E fuoron fatte alora le pa-
roste e l'ovescovo de la citade, en quanto che è a cristiana

gente.

APPENDICE I.

|

Ranaldo da Monte Albano.

(e. 98r) Ora se comenga la bella estoria como uno grande
Re de saracenia, sapendo como Carlo era con sua gente a Roma,
se parte de saracenia e viene a Parige con piü de CL milgliaia
de uomene e arde e abruscia tutta la Francia e le terre de Pa-
rigie. E en tale manera Ranaldo da Monte Albano se parte con
suoie settecento soldate che sempre tenea, e viensene verso Pa-
rige e entra presso a la cità de ?urige con sua gente apresso a
l’inimicie; e en tale manera quilglie de la terra lo conoscieno à
larme; e li amicie, quale Ranaldo avea dentro en Parige, fanno
| a luie securso secretamente, perchè Ranaldo era en bando de la
corte. E Ranaldo con sua gente tutto giorno ofendea en l'oste deglie
seracine; e en tale manera va el messo da parte de la regina e

(1) Perugia ottenne l’° esenzione dei tributi, ma non delle decime. Il

passo certamente non è molto chiaro.

MR dn

Sor da
140 M. CATALANO

anche da parte de uno giovene prode che era parente de Carlo,
Agirardo da Fratta, che devesse securrere a Parige e notiffic:
como Carlo è el-le parte de Roma. E per tale ambasciada (1) e
novella Ghirardo da Fratta era molto contento, perchè Carlo
facea (2) senpre quille cose che volea Gaino da Maganca, e disse

en sua resposta a tale enbasciadore: — Direte che mande per la
gente de Maganga che securra en tale manera. — Per tale novella

era molto alegro e non fa mentione volere andare a securrere.

Mo dicie lo conto como la gran dama e molglie de Ghirardo
sappe tale novelle, parla a Ghirardo e dicea: — Se la crestentade
se perde, se dirà ch’è perduta per te: così se dirà, se tu securre,
che per te se raquista. — E facea di e notte grande prieghe a
Ghirardo che securesse. En tale manera Ghirardo da Fratta, per
dire de sua donna, pensa assaie e puoie fa bandire per tutto suo
ducato che omne gente d'arme monte a cavallo e mena seco più
LXX milia uomene d’arme tutte brettone che era [la] melgliore
gente del mondo a batalglia.

Ora, dicie lo conto, Ranaldo dì e notte con sua gente facea si
grande danno en l'oste deie (3) saracine e ocisione che glie facea
biene estare serrate e non podeano partirse de le schiere. Mo dicie
lo conto como Ghirardo da Fratta giongne en le parte de Parige,
se pone con sua gente apresso a l'oste dei seracine en uno grande
colle, sicchè tutto l'oste dei seracine li podeano biene vedere, e
Ranaldo eon sua gente era da l'altrà parte presso a la cità de
Parige e conoscie (e. 98 v) biene la 'nsegna de Ghirardo e de ciò
fa grande alegrecca Ranaldo en se medesemo, non dicendo cosa
niuna ad altra gente.

Ora dieie lo conto como, lo giorno ehe venne, Ranaldo asalse
l'oste dei seracine e facea tanto d'arme che facea tutte le schiere
dei seraeine restrengnere verso el padilglione del Re. E alora
donno Buoso e donno Chiaro asalsero da l’altra parte, e se non
che Ghirardo fecie sonare a recolta, en quillo giorno serieno es-
sute esconfitte tutte ei seracine; et en tale giorno perde Ranaldo
de sua gente L buone uomene. i

(1) ms. abassada

(2) Nel ms: si ripete facea.

(3) ms. duie
|

IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 141

Mo dicie lo conto como Ghirardo da Fratta fo con sua gente
biene posato, fa aconciare suoie eschiere, e dà l'una eschiera a
donno Chiaro e a donno Busone, e esso remane colla sua eschiera
e amaestra loro de biene ferire; e perchè sua gente non portasse
esperanga de fugire, fecie mettere fuoco al campo. E allora Ra-
naldo, che era savio.de guerra, fa aretrare sua gente e era colla
gente de Ranaldo (1); e en tale manera Ghirardo con sua gente
comenca grande batalglia, e glie seracine, che era molta gente,
fanno loro schiere, en tutto tre eschiere, e ciascheduna era de
L milia cavaliere (2); fa la schiera reale.

Ora dicie lo conto como Ranaldo con sua gente aguarda se-
racine e a quilla parte guida suo estandardo e tutto quisto fa,
secondo che (3) dicie el conto, per più guadangnare e encomenca
una grande crudele batalglia. E Ghirardo eon sua gente facea si
grande ucisione che glie seracine non podeano durare e comencaro
tutte a fugire a la schiera reale de loro singnore. E Ranaldo che
combattea (4) a quilla eschiera de lo Re seracino, facea con sua
gente sì grande ucisione de seracine che per niuno modo podeano
durare, sicchè, secondo lo livero brettone, en poca ora lo re se-

‘acino fa sonare a la racolta e en fugga se mette con sua gente
scampata, chè perdeio en tale batalglia più de LX milia buone
gueriere, e Ranaldo perdeio de sua gente soldata en tale batalglia
più de doie cento cavaliere e, secondo lo livero, Ghirardo perdeio
en tale batalglia quattro milia buone cavaliere.
(manca qualche foglio)

(c. 99 v) ... e con Massarige entrano nel sepolero de Cristo
con grande pianto e reverentia e quillo Re e gli altre seracine e
gente de quillo Re fanno a Ranaldo e a Massarige grande onore
e voleano dare a loro oro e argento e robbe, ma nolle volgliono
en tale manera Ranaldo e Massarige. E stette al sepolero biene
più de uno mese e puoie se vuole partire e prende comiato (5) da
lo re de Valfonda e lo Re dona a Ranaldo mille eavaliere e pa-

(1) Il testo sembra corrotto.

(2) È probabile che qui il copista abbia omesso alcune parole.
(8) ms. cho

(4) ms. chobattea

(5) ms. chamiato

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"3 142 M. CATALANO

gaglie per molto tempo e comanda a loro che maie nol-lo aban-
donasse. E Ranaldo assaie se scusa, ma nolglie valse e sempre
l'andavano de rieto. E Ranaldo e Massarigie esse venieno escalce
e colle sehiavine endosso sempre denante a tutta quella gente; e
così tanto vanno di e notte che gionsero en Parige. E quando lo
re Carlo guarda per la pianura da uno baleone vidde tale gente
venire e maravelgliose molto. Ma Gaino, che stava biene atento,
tantosto gionse a Carlo e disse: — Anche non se vuole remanere
Ranaldo ehe esso mena molta gente armata; non basta che glie (1)
feceste perdonare. — A alora Ranaldo gionse e vassene per le scale
con Massarige e tosto s'engenoechiaro denante a lo re e Carlo
dice: — Ranaldo, anco non te remane de male fare: tu te mene
derieto gente armata. — E Ranaldo dicie a lo re el convenente,
esso e Massarige. Non se poria contare l'alegrecea che facea A-
stolfo, el conte Orlando, el Dusi Namo e gli altre palladine, ma
tutto el contrario facea Gaino e quilglie de Maganga.

Ora dicie la vera estoria como, per lo (2) raeusare de Gaino
e de quilglie de Maganga, che doie figliuoli che avea Ranaldo erano
en pregione, perehé Gaino gli avea malfagiamente eneusate che
aveano morto e robbato uno grande cavaliere e de piü altre tra-
demente per fare loro morire. E quando Ranaldo truova tale ma-
nera, priega lo re che glie tragga de pregione e essi (3) sonno
aparecchiate de combattere per la giostitia e vertà che de tale
fatto sono aeagionate a torto. E alora lo re dicie : — Tisto deggo
fare; — e cosi eomanda a l'uno de quilglie che (4) acusato aveno
glie figlioli (c. 99 v) de Ranaldo (era figliuolo de Gaino e l'altro
era suo nepote). E en tale manera fo ordenato el di de la giostra
e fatto uno estaccato, sichè convenia che l'una de le parte rema-
nesse morta. E quando viene el dì che quiste quattro entraro a
la batalglia, Gaino fecie armare molta gente e miseglie enn-a-
guaito (5): se-lglie suoie perdieno, che la gente traesse a ucidere

(1) ms. che eglie che glie

(2) ms. la

(3) ms. esso

(4) Segue un a che viene omesso.
(9) ms. aguito

—E==®m
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 143

glie figliuoglie de Ranaldo e de tale convenente Ranaldo non sa
niente. Ma Astolfo, che se n’acorse, andò (1) a Ranaldo e disse a
luie: — Se tuoie figliuoglie perdono, esse (2) perdono, e se ven-
cono, perdono, ché Gaino à (3) messo suo aguaito en tale parte. —
E Ranaldo tantosto manda sua gente che se armasse e andasse a
la guarda de la (4) giostra che altre non podesse loro ofendere.
E così fo ubidito (5). E quando Gaino ciò vidde, va a lo re e dieie
como Ranaldo avea fatta armare sua gente per fare offendere al
suo figliuolo e a suo nepote, sicchè lo re se eredea quillo che
Gaino glie dicea en quisto e enn-altre eose. Tantosto manda per
Ranaldo e Ranaldo va a luie e falglie grande reverentia. E lo Re
poco eura de sua reverentia per le malfagie parole che Gaino sempre
dicea de luie e de sua gente a (6) lo Re, como fanno sempre ei
tradetore, e dice a Ranaldo: — Tu mustre biene e aduopre male;
— e Ranaldo dice: — Seiere, que e quillo che dicete? — E Carlo
dicie: — Tu aie fatto armare tua gente per fare morire el figliuolo
de Gaino e suo nepote, se esse vencono. — E alora Ranaldo dicie:
— Seire, Gaino è quillo ehe à fatto quillo che voie dicete, chè io
aggio comandato che esse estieno a la defesa de la giostra, però
che Gaino à messa gente ad aguaito per fare ai mieie figliuoli
quillo che dicete en cotale parte e se non eredete, faitelo sapere.
— Alora lo re comanda se Ranaldo diee vero e trovó eos] vertà
e lo Re fecie remuovere tutta la gente e quilglie quattro entraro
a la giostra.

E sacciate che l'uno deglie figliuoli de Ranaldo molto giovene
che nonn-avea vinte angne e l'altro ch'avea [nome] Guidino avea
forse XXV angne. Ma, come piacque a-Ddio (e. 1007) la vertà,
Guidino vense tosto sua giostra, l'altro non vense tantosto, alquanto
vense de rieto, perchè esso combattea .con uno de quilglie de Ma-
ganga molto forte, sicchè a la fine quilglie de Maganga fuoro amen-
doro morte. Così entravenga a omne tradetore,

(1) Il copista ripete ando
(2) ms. esse esse

(3) ms. e

(4) ms. lo

(5) ms. vbido

(6) ms. e

a e gi a a

de oie

A ERE

nt 144 M. CATALANO

Ora dice lo conto como Ranaldo e Massarige se partono e vanno
verso Giacomo de Galitia e dicea Ranaldo a suoie figliuoli: —
Voie sete tanto forte (1) che podete defendere vostre ragione. —
E a la sua gente comandò che siano a la ubidienga (2) de Carlo
Re. E puoie prendono loro comiato e vanno a loro camino; e,
quando sonno dentro nella Spangna, truovano una grande selva e
truovano dentro a quista selva uno bello romitaggio. E alora Mas-
sarige dice a Ranaldo: — Estaiamo qui a fare penetentia. — 1
stettoro lì molte dì ensieme. Puoie dice Ranaldo a Massarige: —
Io volglio andare (3), Massarige, volete voie venire? — E alora
Massarige diee: — Io non volglio più andare: volglio estare qui
a fare penetentia. — Alora Ranaldo se parte e qui lassa suo ceio (4)
Massarige en quisto romitaggio a fare sua penetentia e fo saneto
uomo. |

Ora dice lo conto como Ranaldo se parte e tanto va di e notte
«che gionse enn-una grande valle; e li facea uno gentile uomo uno
suo monestero e erase fatto abate per fare penetenca e facea sempre
lavorare. E alora Ranaldo avisa e dicie: — Qui posso io guada-
gnare mia anima. — E comenga a stare en quisto luoco: portava
ai maestre pietre, rena e calcina e quillo che bisongnava per tre
altre manovaglie e quase per luie el monesterio crescieia enn-alto
en gratia de Ddio, en tale manera che gli altre manovaglie, che
stavano en quillo luoco, portavano a Ranaldo grande envidia e
àvvero ordinato de uciderlo. E così fiero: che una notte, quando
Ranaldo dormia, l’ocisero colglie malpica e puoie el bulgliaro entro .
enn-uno grande fiume che passava presso quilla badia. E saeciate
che quella era fatta una grande e rieca badia solo per Dio e per
Ranaldo.

Ora dicie lo conto che, como àvvero bulgliato Ranaldo en
quillo fiume, lo fiume per gratia de-Ddio se folse (5) e non currea :
che era uno eurrente fiume. En tale manera l'abate de. quillo

(c. 100v) monesterio avea ademandato gli altre manovaglie de

(1) ms. ta marte

(2) ms. ubideca

(9) Espungo un e.

(4) Zio?

Volse? Lo scambio di v in f sarebbe confortato da malfagio.
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 145

Ranaldo e esse avero ditto che non sapeno duva sera, che non
gieno guardando quillo tale uomo e aveno posto a luie nome el
grande. En tale manera uno de la casa venne a l'abate e disse:
— Sapete novelle? el fiume non cure. — E l’abate dicie: — Como
è ciò? — E quillo tale disse: — Non so più. — E alora l abate
va verso el fiume e vede che era vero e uva estava el corpo de
Ranaldo era quase l’acqua esciucca. E l’abate va en quille parte
e vidde Ranaldo morto e fecelo trare del fiume e, quando fo Ra-
naldo tratto del fiume, encontenente el fiume tornò en suo estato.
Quillo abate fe’ portare Ranaldo a la badia e là facea molte mi-
'aeoli. E uno ch’era essuto aconsentire a sua morte, avea uno
occhio cieco e, quando esso fo tratto del fiume, se bangnò le mano
nei pangne de Ranaldo, che erano alquanto sanguenose, siche
l’acqua era mixta col sangue de. Ranaldo che era tratto del fiume;
ello se puse la mano a quillo occhio e encontenente vidde lume e
tornó bello como l'altro. E alora quillo manovale eonfessó che esse
per envidia l'avieno morto. E alora l'abate fecie cercare tutte glie
pangne de Ranaldo e trovaro uno liverciuolo de l'ofitio de la
Donna, che sempre esso dicea; e eracie eseritto como quisto era
Ranaldo da Monte Albano e quillo abate mandó le novelle en
Parigie.

Ora dice lo conto como el conte Orlando, Astolfo, el Duxnamo
e molte altre ‘andaro e trovaro Ranaldo morto e como Astolfo
volea ardare quillo monesterio, se non fosse el Duxnamo che non
volse. E tolsero quillo corpo e feccolo portare en Parige a sancto
Deonige de Francia, secondo dicie el Brettone, e alcuno dicie
ch'el corpo suo è en quillo luoco a quilla abadia ed è enfine a lo
reame de Spangna. E en tal modo Ranaldo passò de quista vita.
Deo gratias. Amen (1).

(1) Segue il principio di un altro « conto », interrotto per la mancanza di
uno o più fogli: « Mo comenca la bella estoria de lo ’nperadore Federigo,
quale se deliverò d'avere uno buono di al mondo e pensoccie un gran tempo
per quillo che disse Piero da le-Vingne, suo cancelliere. Ora dicie l'autore
che, quando lo 'mperadore ebbe ordenato e pensato avere uno buono di,

perchè se dicie che maie nulla persona ebbe ... ».

AE

*

Bau ul

e i od
M. CATALANO

APPENDICE II.

Il leone di Corciano. )

... (. 1017) grande e dicea che quillo lione da Corciano lo
volea ucidere. E lo padre, vedendo come lo filglio era en tale

manera tanto gravato, dicie a suo figliuolo: — Lo lione de Cor-

ciano non puote fare male, però che è de pietra, sicchè non può
t

ad altruie fare male. — Ma quiste parole niente valeano che,

quante fiade se ponea a dormire maie, quisto garsone omne fiada
sunmiava che quillo lione lo ucidea. E per tale convenente lo
padre se parte uno giorno da easa sua e mena quillo garsone a
quillo redutto uva estava quillo lione entalgliato de pietra; e sta-
vano en quisto luoco più gente. E quando esso e suo figliuolo
sonno en quisto luoco, dicie suo convenente a quilglie che lì esta-
vano e puoie prese a toccare quisto lione e dicea a suo figliuolo:
— Guarda mo che.quisto lione non puote fare male. — E dicea
a suo figliuolo: — Tocca mo quisto lione. — Suo figliuolo enco-
mencò a toccare quisto lione e toccandolo andò da la parte denante
a la bocca de quisto lione e miseglie la mano en bocca a lo lione,
che alquanto era cupa entalgliata con dente de pietra al modo
usato; sicchè (1) quisto garsone mise la mano dentro: a la bocca
de quisto lione era uno grande scorpione, el quale piggecò quisto
garsone. Per tale manera quisto garsone morio del morso de quillo
escorpione e perciò dice Maccobrio de sunmie e visione che alcuna
fiada ei sunmie non sie voliono avere a buffa.

E perché quisto garsone morio, el padre de quisto garsone
andò e guasto quillo (2) lione e tutta la testa e i pieie glie ruppe
eolglie malipiche. E ancora quillo lione deie essere a Corciano,
secondo ehe dicie el componetore de questo dire.

Deo gratias. Amen. Amen. Amen.

(1) ms. sicch

(2) ms. quillo quillo
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO

GLOSSARIO

Per l'antico dialetto umbro vedi le Laude di frate Iacopone da

Toda

secondo la stampa fiorentina del 1490 con prospetto grammaticale e lessico a cura

di Giovanni Ferri, Roma, 1910 (ediz. della Società filologica romana) e gli

appunti linguistici di Gruserre Garrr nelle Laudi inedite dei disciplinali umbri,
Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1910, pp. XIX-XXXIH, edizione

provveduta anche di un modesto glossario. Il riscontro con i codici mi ha

però convinto che non ci si può fidare molto di quest’ ultima pubblicazione.

Qui si registrano soltanto le forme che più si discostano dal toscano, affinchè

il lettore, non pratico dei dialetti dell’ Italia centrale, possa comprendere

più agevolmente il testo.

aconcio, ricco
acontare, raccontare
adunarsi, congiungersi
aguaito, agguato
aguardare, osservare
aiquanto, alquanto
aire, aria

amendoro, ambedue
amica, concubina
aperdere, perdere
araquistare, riacquistare

ardormentare, addormentare

atornare, ritornare
asciempio, esempio
avetare, abitare
avetatione, abitazione
avisare, guardare

bailo, balio
bestiaglia, bestiame
brocciare, spronare
bugliare, buttare

chiosto, chiostro, cortile
co, come

commettere, cedere
concio, addestrato
consobrino, cugino
coraggio, cuore
corocciamento, eruceio
coroccio, eruceio
corotto, pianto
crestenta, cristianità
cupezza, profondità

deliberare, liberare
depo, dopo
dificare, edificare
donqua, dunque
ducere, condurre
duva, duve, dove

ei (art.), i

encusare, accusare
engroluppare, ravvolgere
entendanca, intendimento
entravenire, avvenire
esciucco, asciutto

essuto, stato

estantia, dimora

Sd a di

ro Mine if GI

E

*

gu

i 4!
cmm di

r
sei fedele, vassallo
fiambare, infiammare
furto (agg.), furtivo

gavriuolo, capriolo
gelosia, preoccupazione
ghiottone, screanzato
guarda, guardia

liverciuolo, librieciuolo
loxa, loggia
lungne, lungi

malfagio, malvagio

maiure. maggiore, maggiorente
malpica, piccone
mate, madre

merigco, mezzogiorno

minnova, minima

nante, innanzi
navighiere, mar naio

OVESCOVO, Vescovo

pallion, drappo
pandere, manifestare
par. «ta, parrocchia
partimento, partenza
piento, pianto
porta, quartiere
posare, riposare
poso, riposo

148 M. CATALANO

pralate, prete
precorrere, prevenire

racusare, riaccusare
remenare, ricondurre
reporre, rifare
restare, resistere
rieto, dietro

schifo, orgoglioso

sciere, scire, sire
SecursOo, SOCCOrso
sementa, fondamenta
semmetà, sommità
senghiale, cinghiale
sermocinatore, ciarlatano
soldare, assoldare
solecetudene, attesa ansiosa
sommente, semente

suto, stato

rantosto, subito
tisto, cotesto
trabachia, capanna
uva, dove

vaccio, presto
veneno, veleno

vertà, verità

cambra, cemera
IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO

INDICE DEI NOMI DI PERSONE E DI LUOGHI

Abrunamons 44.

Achino, Acquino v. Achino.

Agirardo della Fratta v. Girardo.

Agolante 44.

Alisante 44.

Amelia 73, 82, 125, 126.

Angelo (Sant’) 79, 80.

Antemone, 64.

Antenore (Antinore), 62, 91.

Antonio (Sant’) ebbate 51.

Aquino (Achino, Acquino) 65, 82,
119, 120.

Aregolglioso, Argoglioso v. Orgo-
glioso di Persia

Artù 58.

Assisi 43, 46-54.

Astolfo 143, 145.

Balbe (monte) v. Malbe.
Berta 51.

Bonifacio da Verona 70, 78.
Brunamonte 44.

Buglione Goffredo 58.
Buoso (Busone) 48, 80, 140.

Caina (torrente) 103, 118.

Candida 65, 73, 87, 119, 120, 121,

122, 123.

Carducci Giosuè 55.

Carlo Magno 49, 50, 51, 52, 53,
54, 55, 56, 57, 58, 62, 73, 75, 80,
123, 124, 125, 128, 129, 130, 133;
136, 138, 139, 142.

Chiaro 80, 140.

Colonne (delle) Guido 62. .

Como (Coma, Comuna, Cuma) 124,
128.

Coragino 63, 64, 65, 73, 74, 85, 90,
91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99,
100, 101, 102, 103, 104, 106, 107,
108, 109, 110, 111, 112, 114, 115,
116, 117, 118, 119, 120, 121, 122,
123, 132.

Corciano 61, 63, 64, 65, 73, 74, 77,
78. 81, 82, 84, 85, 92, 93, 110,
112, 123, 124, 132, 134, 146.

Cornaletto 74, 75, 77, 122, 123, 124,
132, 133, 134, 136, 131, 158.

Costacciaro 57.

Desiderio (re) 51.

Ditti eretese 62.

Donnola Taddeo 55.

Durante Pietro 58.

Durindana 137.

Dusnamo (Dusi Namo Dux Namo)
142, 145.

Ermengarda 51.
Errico Francesco 42,
Ettore 63.

Euliste v. Ulisse,

Federico (imperatore) 145.

Foligno 58.

Forandano 63, 64, 90, 91, 92, 93,
94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101,
102, 103, 104, 107, 110, 114, 115,
116, 117, 118, 119, 120, 121.

Francesco (San) 45-48.

Frezzi Federico 58.

Gano (Gaino) di Maganza 50, 80,
140, 142.

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- Ghirardo v. Girardo.

Giano 67.

Gilio (di) Ercolano 81.

Girardo (Agirardo, Ghirardo) della
Fratta 80, 140, 141.

Golia 126, 127, 128, 131.

Gualdo Tadino 53, 58.

Gubbio 44, 51.

Guidino 143.

Iacopone da Todi 83.

Landone (Landorno) 64, 105, 125.

Lasolina v. Solina.

Leone (papa) 51.

Lorenzo (San), cattedrale di Peru-
gia, 62, 90, 111, 127, 128.

Lucca Angelo 42.

Macrobio (Maccobrio) 146.
Malbe (monte) 64, 84, 85, 90.
Marco (di) Giovanni 87.
Marsilio 44.

Massarigi 141, 142, 144.
Maturanzio Francesco 68.
Meneco (buffone) 43.

Michele (imperatore) 51.
Mortara (Mortaria) 52.

Muti Angelo 87.

Narni 56.

Nembrotte (Nebrotto) 64, 105.

Nera (fiume) 56.

Noè 67.

Norcia 53, 58.

Novizio 65, 73, 87, 119, 120, 121,
199.1939; —

Occhialone 51.

Oliste v. Ulisse.

Oliviero (Orleviere) 44, 51, 53, 54,
18, 14, 75, 76, 11, 18, 19, 82, 81,
123, 194, 125, 129, 130, 131, 132,
135, 136, 137, 138.

Orgoglioso (Aregolglioso, Argo-

glioso, Oregolglioso) di Persia,

150 M. CATALANO

19:914, 1910, (5 80,00, 198,
194,.195,. 126, 197, 129,.130, 131,
132, 133, 135, 136, 137, 188.

Orlando 51, 53, 54, 55, 56, 51, 61,
18: 44, 10, 40, 00.185 49,:90, 82,
87, 123, 194, 131, 132, 133, 134,
135, 136, 137, 138, 142, 145.

Orleviere v. Oliviero.

Orvieto 44, 45.

Perseo 67.

Perugia (Peroscia, Perosia, Peru-

sia) 41, 44, 53, 54, 61, 62, 63, 64,
65,:66; 01, 68, (1; 12) 3(03:00108,
19, 88, 84, 85, 86, 87, 105, 110,
111, 112, 113, 115, 119, 121, 123,
194, 125, 126, 127, 128, 130, 132,
133. 134, 138, 139.

Perusio 67.

Peruso (Pruso) 67.

Pietro (San) da Verona 84, 124.

Ponte S. Giovanni (San Giangnie)
84, 126.

Priamo 63.

Priso 61.

Prosemana (la Polzella) 73, 75, 77,
85, 87, 123, 124, 125, 126, 127,
128, 130, 131, 135, 137, 138.

Rinaldo da Montalbano (Ranaldo

de Monte Albano) 80, 81, 140,
141, 142, 143, 144, 145.
Rosella 53.

Saint-More (de) Bénoît 62.

Santa Croce (monte) 56.

Savina 119.

Solina (Lasolina) 65, 92, 93, 95,
108, 114, 119, 121.

Spello 54-56.

Spirito Lorenzo 58.

Spoleto 53, 73, 75, 82.

Tevere 97.
Tirreno 67.
Toasse 62, 122.
.IL ROMANZO DI PERUGIA E CORCIANO 151

Tomassino (fra’) di Norcia 83.
Tommaeo d’Aquino 82, 120.
Trasimeno 63, 84, 87.
Tromba Francesco 58.
Tromba Girolamo 58.

Turno 119.

Turpino (Torpino) 44, 134,

Ulisse (Euliste, Oliste, Uliste) 54,
62, 63, 64, 65, 67, 69, 70, 72, 73,
(87:89,:905:92;:03,-9D, 015:98::99;
101, 104, 105, 106, 107, 108, 109,

110, 111, 119, 115, 116, 117, 118,
119, 199.

Verzaro (Versiere, Versaio) 64, 108.

Vibio 67.

Vienna 51.

Vigne (delle) Pietro 145.

Vivante 63, 64, 65, 73, 87, 90, 91,
94, 36, 97, 98, 99, 100, 101, 102,
103, 104, 105, 106, 107, 108, 109,
110. 114, 113, 114, 115, 116, 117,
118, 119.

Viviano 44.
DE GESTIS ET VITA BRACCII,,
DI A. CAMPANO (1).

A proposito di storia della Storiografia

La disfatta dei Bracceschi nella pianura dell’ Aterno
(2 giugno 1424) arrestava di un colpo il fatale andare del
grande condottiero che, colto sopra una strada di gloria, non
volle sopravvivere all’annientamento della propria grandezza.
Il rifiuto di cibi e di farmachi, l'impenetrabile silenzio, in
che si chiuse dopo limmeritata sconfitta, la causa non del
tutto perspicua della morte, mantengono alla sua fine quel-
l’eroico atteggiamento a cui aveva informato buona parte
della sua vita.

E le amare considerazioni del Poggio sulla inopinata (2)
catastrofe sentono ancora lo smarrimento degli spiriti di-
nanzi al fato di quel grande che dall’ apogeo della gloria
precipitava nell’annientamento.

Eodem ferme anno (1424) et Bracchii Perusini specta-
culum fortuna edidit, quem in summo veluti theatri campo,
cum continuis belligerandi studiis conspiciendum, tamquam

(1) La R. Dep. di Storia Patria ha voluto fosse ricordato il V Centenario della
morte di Braccio Fortebracci (5 Giugno 1424) affidandone l’incarico al suo socio, il ch.mo
prof. Valentini. Questi, che aveva in antecedenza nel nostro Bollettino scritto dotte
pagine intorno al grande Capitano di ventura, con il presente articolo ha assolto il
mandato ricevuto illustrando, con uguale perizia e con fine critica, la vita del va-
loroso Condottiero, scritta da A. Campano.

(2) Fu opinione comune degli storici sincroni. Anche Leonardo Aretino:
Et Braccius paulo post, quum Aquilam urbem obsideret ... praeter spem

omnium profligatur atque occiditur. RIS. XIX, 932.

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personatum quemdam Regem constituisset (1), una hora or-
namentis omnibus, vitaque nudatum atque abiectum destituit.

Nulli hominum magis nostra memoria fortuna indulsit,
in neminem plus contulit, adeo propitia suis votis, ut ea sola
mundum regi, eius arbitrio actus omnes nostros subditos esse
palam fateretur.

Ita vir nostra aetate belli pacisque artibus cla-
rus, ad multa dux egregius, quae pluribus bellis laboribu-
sque contraxerat, uno momento simul cum vita amisit; do-
cumentum sui exemplo tradens caeteris, qui fortunam se-
quuntur, perlevem esse illius et instabilem fidem (2).

L’acerbo fato di B. costituiva pel Poggio una prova pal-
mare delle vedute storiche, dominanti nell'età sua, essere i
casi umani un'alterna vicenda di beni e di mali, di felicità
e di miserie, di splendori e di decadenze (3).

Così gli eventi negarono a Martino V l'insperata soddi-
sfazione di vedere ai propri piedi il cattivo demone della
sua vita: a Roma non giunse che il cadavere del vicario
ribelle che, come anatema, fu sepolto in luogo non sacro (4).

A B. toccò la sorte che ai condottieri d' uomini è stata
quasi comune: le gelosie, le rivalità, l'odio fazioso superstite,
le paure, ancor vive, i danni recenti ne deformano le azioni
che, avulse dalle cause che parvero giustificarle, facilmente

(1) È impressione condivisa da quanti hanno scritto di Braccio, amici
e nemici. Così il Ciminello:

Sembianza fa de Re o de Imperatore.

Muratori A. I. M. ZE. VI, 967. Il Campano scrisse anche: ... impera-
toria quadam et supra mortalem iocunda praesentia. Muratori, XIX, 562.

(2) P. BraccioLINnI, Hist. de varietate fortunae lib., IV., Lutetiae, Paris,
MDCOXXIII, 73-4.

(3) Croce Teoria e storia della storiografia Bari 1917, 216.

(4) Nel De Cnaura, che pare morisse tra gli ultimi del 1433 o nei primi
mesi del ’34, la notizia è cosi deformata: Sic triduo tellure deiectnm ca-
daver, aspectu horrido, postea canum et volucrum laniatibus exponitur.
Gestorum per Alphonsum lib. V Starrabba, Palermo 1904, 63.
« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 155

si prestano ad interpretazioni astiose e maligne. Contro di
lui, il ribelle toccato dal dito di Dio, si accani per giunta
l'indignazione dei fedeli, che ne vollero dannata la memoria
in un ricordo d’odio e di esecrazione.

Per altro troppo vasta orma aveva stampato il grande
scomparso nella storia della sua patria, troppi erano gli ob-
blighi che tanta gente da lui difesa, ingrandita, innalzata
era tenuta ad avergli, troppo salda la fama dell’uomo oltre
i patri confini, perchè dal colpo che invidia gli diede non
lo sollevasse la pietà congiunta, la gratitudine vigile, l'or-
goglio di chi crebbe alla sua scuola e quello stesso ricono-
scimento del merito che si matura nel tempo e finisce per
aver ragione di ogni invidia e di ogni menomazione.

Così che quando Niccolò Fortebracci, molto in grazia
di papa Eugenio, ricercate e ribenedette le ossa di B. (1),
scrisse ai priori di Perugia che egli avrebbe ricevuto per
somma grazia se quei resti mortali, lasciati per otto anni in
così ignominiosa ingiuria, fossero composti in un luogo degno,
i Priori decretarono, unanimi, che per quella pompa funebre e
per un degno mausoleo si erogassero mille fiorini del pubblico
erario (2). A Perugia non fu più veduta tanta munificenza
di esequie, da paragonare a questi postumi onori tributati
alle ossa di B. (3).

La sera del 3 maggio 1432 tra il suono di tutte le cam-
pane ed unanime, solenne tributo di pubblico lutto, i mani
di B., placati, tornarono nella propria patria (4). Gli attriti,

(1) Furono concesse per mille fiorini al capitano Niccolò Fortebracci,
nepote di Eugenio IV: Ann. Dec. del Com. di Perugia, anno 1432 foll. 44,
48 e 58, ove sono riportate le ordinanze pel funere e le esequie.

(2) PErnumi II, 336.

(3) Ne son piene le cronache. Perni loc. cit. Graziani in Arch. Stor.
Ital. p. I, 360.

(4) Dalla Biografia del Prcconowmsr apprendiamo che l’ ira celeste si ma-
nifestò con segni non dubbi anche contro le ossa dello scomunicato ! Quam-

vis eius cadaver, sive ossa, dum Perusium portarentur ingens grando cum

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156 R. VALENTINI
le animosità, i dissensi avevano fatto luogo al rispetto, e
tuttavia più grande e sincera cresceva intorno a quel tumulo
l'ammirazione, che finì coll’innalzare B. a simbolo dell’ arte
e della virtù militare (1).

E quando la riverenza ai templi volle banditi per bocca
di fra Roberto da Lecce gli stendardi che popolavano le
chiese, il 27 maggio 1448, furono rispettati in S. Francesco
solo i vessilli di B. « o per l'eccellenza delle sue
molte virtù » o ad istanza di Giacoma, moglie di Mala-
testa Baglioni (2).

*
LE

Tra gli orgogliosi, potenti e legittimi eredi delle glorie
del condottiero, tra i commilitoni del grande guerriero, tra
i più ardenti zelatori della sua fama, tra i devoti ed emuli
della sua virtü, quando Braccio Baglioni si apprestava a
imparentarsi con gli Sforza (3) giungeva in Perugia Antonio
Campano.

Vi arrivava spoglio di tutto, dopo un viaggio fortunoso,

tempestate secuta fuerit, quae universos agros ac vineas concussit. De viris
illustribus in Bibl. d. literar. vereins in Stuttgard T (1848) p. 13. Sulle vi-
cende della sepoltura di B. nella Chiesa di S. Francesco dei Minori Con-
ventuali a Porta Susanna rimando allo Scanvawmr, Per la sepoltura di Braccio
Baglioni e di B. Fortebracci in questo Bollettino 1906, 515.

(1) Nella medaglia che conió il Pisanello in onore di N. Piccinino é
rappresentato B. fanciullo che sugge dal grifone perugino i primi alimenti
dell’arte della guerra. Vermeriori Opuscoli IV, 152.

Comunissime in questo torno di tempo dovettero essere le riproduzioni
figurative di B. Nella lettera dedicatoria a Carlo Fortebracci il Campano si
esprime: mitto ad te parentem tuum ; non liniamenta solum atque articulos,
qualis e pietorum ma nibus prodire solet, effigentem, sed loquen-
tem, pugnantem etc. Campani Ep. II, 38.

(2) Perni II, 568; Bonazzi I, 668. Su Roberto Caracciolo vedi la
memoria del Torraca in Arch. St. Nap. 1882 p. 141 segg.

(3) Cfr.: questo Bollettino 1908, p. 110; 1911, p. 246.
« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 157

intorno al 1452 (1). E i primi tempi dovettero correre molto
neri pel giovane letterato, impegnato in una lotta esaspe-
rante, diurna e notturna, con la dura povertà.

mihi atra
squalet sordidulo lucerna filo

: SRI ;
Fumosus vacua sub aede vates
vieinum metuo tremens decembrem (2).

Ma prima gli sovvenne pietosa la liberalità di Niccolò
da Sulmona, pubblico lettore di medicina in quello Studio;
e più tardi il mecenatismo della casa Baglioni doveva assi-
curare al poeta quell’ ozio operoso, al quale dobbiamo la
miglior parte della sua produzione.

Ma in quale clima culturale venne a trovarsi il giovane
letterato? A darcene un’idea non sembrano la fonte più ac-
concia due lettere del suo epistolario, dettate in momenti di
esultante confidenza e di deprimente abbandono.

Colla prima — una apologia del discorso inaugurale per
l’anno 1455-6, tenuto nello Studio perugino — ci fa sapere
che lo onorarono della propria presenza ben 48 giureconsulti,
innumerevoli medici, grammatici ed oratori, siano pur stati
quales sunt oratores hodie, si solum non barbare illatineque
loquantur (3). Un circolo di dotti, quale era da supporre
intorno a uno Studio generale, meritamente famoso, anche
se circondato da fredda noncuranza da parte dei cittadini (4).

Ma ben altrimenti si espresse sulla cultura perugina con
Gilforte dei Buonconti da Pisa (5). Il Campano lottava allora

(1) Cosi anche nella Biografia ms. in Vat. Lat. 9263 f. 416. Della
cattura dettó egli stesso il raeconto, cfr. Carm. I, 9. (Menken p. 14).

(2) Campani Carm., I, VI.

(3) Campani Ep. p. 50 (Menken).

(4) Ibd. p. 51.

(b) Era tesoriere nell'anno 1455-6. Gesti il governatorato dal 29 luglio
1455 al 29 giugno '56 Giacomo della Ratta, archiepiscopus Beniventanus.
Boll. di St. P. per U Umbria 1900, 68.

B ca -— T)

158 R. VALENTINI

con la invidia di chi lo aveva accusato di eccessiva tiepi-
dezza nei propri doveri d'insegnante; le dure illustri porte 1
ancora gli rimanevano ostinatamente impenetrabili e l'avvi- 1
limento pesava sconfortante sull'animo suo. Orbene, aver
presente questa esasperazione di un animo davanti alla per-
sistente indigenza, all'invidia, palese o larvata, significa tener È
nel debito conto questo sfogo di dolore, espresso in uno dei . i
momenti più tristi (1). |

In verità per quanto corressero allora in Perugia anni |
procellosi nel travaglio dei dissensi e delle rivalità dei nobili,
non è meno vero che i Perugini furono sempre gelosi custodi |
della reputazione del patrio Studio, e nulla risparmiarono 1
per attirarvi, anche nel campo delle umane lettere, i più
reputati maestri (2).

j La cattedra a cui, era stato chiamato il Campano vantava
in realtà tradizioni degne. L'aveva occupata Tommaso Seneca
nel 1428 (3) e quattro anni dopo il Panormita vi aveva tenuto
un discorso in lode dello Studio (4).

(1) Campani Ep. II, 101 (Menken) ... Gens immanis... earum rerum
contemptrix quibus gloria ipsa paratur, negligens praeterea litterarum. Nul-
lam enim gentem vidisse me memini adeo a bonis artibus studiisque huma-
nitatis abhorrentem, quae studia, ut caetera, nisi apud eos qui colant, quique
sectentur, pretio haberi non solent.

(2) O. ScaLvanti, Cenni storici dell’ Università di Perugia, Perugia 1910
p. 91 segg. Lesca Giovannatonio Campano p. 28 nota. Pontedera 1892.

(3) Boll. di St. Patr. per l' Umbria 1905, 54.

(4) È un particolare ignorato nella vita del grande umanista, perché
il Vermiglioli, che segnalò questa notizia, non ravvisò il personaggio. Negli
Annali Decenvirali a. 1482 fol. 188 ter si legge che il Magistrato e per esso
lo spenditore di Palazzo honoravit dominum Antonium de Cicilia,
oratorem et poetam laureatum et compositorem carminum, qui
praefatos dominos priores visitavit et.coram eis et pluribus aliis notabilibus
civibus Perusinis quemdam pulcherrimum sermonem ad commendationem
civitatis et Studii perusini explicavit et etiam aliqua carmina super thema[ta]
per dominos magnificos Priores data, composuit. VermigLIoLI, Memorie di
G. Antiquari, Perugia 1818, 156.
— m$;

« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 159

Dopo la morte del cancelliere ser Matteo da Terni, il.
Consiglio, chiamato a provvedere per una nuova nomina (10
aprile 1440) dovette pronunciarsi sopra questi nomi: Fran-
cesco Filelfo (1), Giovanni Aurispa (2), il Marrasio e Ranuccio
da Castiglione. Su quest’ ultimo cadde la scelta « cum hoc
pacto et conditione ... quod ... sine alio salario vel ratione
teneatur et debeat ordinario legere in arte et facultate ora-
toria singulis diebus non feriatis ... saltem unam lectionem
publicam omnibus audire volentibus (3).

E come Ranuccio non si presentò e il posto rimase va-
cante, nel maggio fu condotto Tommaso Pontano, vir optimus
et eloquentissimus e a lui fu affidata la cattedra di eloquenza
per tre anni (4).

Meritò poi successive conferme per le sue benemerenze
che emularono l’attività e lo zelo di T. Seneca, e fecero della
sua scuola un centro di irradiazione e diffusione dell’ uma-
nesimo nell’Umbria (5).

Questa succinta notizia mira soltanto a correggere l'im-
pressione che puó riceversi anche da altre espressioni del

Campano, specie dalle stroncature ironiche contro quel Guido.

Vannucci, che soltanto per comodità polemica potè essere
elevato ad esponente della cultura regionale del tempo.

A così degni predecessori successe dunque il Campano,
eletto il 16 novembre 1455 lettore pubblico di eloquenza con
lo stipendio annuo di 50 fiorini (6).

(1) Vedine cenno in Epistolario II, 39 Ex Sena, Idib. septemb. 1438;
avrebbe rifiutato per recarsi a Bologna; se pur non si tratta di un invito
precedente a quello di cui parliamo.

(2) Fin dal 1426 l'Aurispa meditava di portarsi a Perugia. SABBADINI Un
biennio umanistico p. 110.

(8) VermigLIoLI Op. cit. 160.

(4) VermieLioLi Memorie per servire alla vita del Maturanzio, Perugia,
1807, 140. P. Pirri, T. Pontano cancelliere di Perugia: in questo Bollettino
1912, p. 382.

(5) Pirri Zbd.

(6) Gior. Stor. Lett. Ital. XXI, 412. MANCINI Vita di L. Valla, p. 68.

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Entrato poi nelle grazie di Nello di Pandolfo « che era
uno dei più vecchi dei Baglioni e perciò il più stimato e
riverito tra loro » (1), gli fu da lui affidata l'educazione del
nepote Niccolò di Pandolfo.

In siffatto ambiente, morale e culturale, nacque la bio-
grafia Bracciana che dunque collochiamo, senza riserve, tra
quella storiografia officiosa e dinastica in cui lo scrittore non
è sempre così indipendente, da sottrarsi all’ influsso della
vita che lo circonda e, perchè no?, alla stessa volontà di
chi gli commette il lavoro.

Constatazioni queste che, se in linea generale infirmano
la storiografia encomiastica, non debbono esimerci dall’inda-
gare, nel caso specifico, in quale parte inquinino l’opera che
prendiamo a studiare. Perchè in nome di certi titoli ormai

quasi tradizionali — astoricismo estetico, ragioni d’arte e di
sentimento, retorica, parzialità — s'é quasi negato all'intiera

storiografia umanistica e alle biografie in special modo, ogni
valore storico. ;

Per uscire dalla imprecisione delle svalutazioni sommarie
occorre analizzare l’opera nella sua formazione, esteriore e
interiore, nei canoni che regolano l'esposizione, nella ricerca
del materiale storico, nei fini, espressi o taciuti, perseguiti
dall'autore, nell'attuazione di una prescelta concezione storica.

E cominciamo dai giudizi dei contemporanei.

Ai fini della nostra ricerca è pur necessario ascoltarlo
questo coro d'ammirazione, che salutó, al suo apparire, la

biografia Bracciana. Delle prime lodi si fece precone il Cam-

pano stesso, e non saremo noi a censurarlo, questo giovane, del
suo legittimo .compiacimento: Qui hanc historiam, novissime
scriptam, legunt, sic afficiuntur, ut omnium sit iudicium nihil
iam post septingentos annos scriptum magnificentius. Nam

(1) Peru II, 632. Per il suo prestigio in patria e la molta autorità,
vedi p. 638. Nel 1457 toccò al Campano l’onore di recitare l’orazione fu-

nebre in morte di tanto protettore. p. 638.
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« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 161

et contionum ardor historicus apparet et aequalitas rerum
castigata oratione profluit: tum multa loca summa cum di-
ligentia describuntur. Denique sic sum conatus rerum servare
dignitatem, ut, si legas, vestitam historiam, non nu-
dos commentarios legere videaris (1).

Venne poi il Ferno: al Campano toccò la sorte invidiata
di trovare in lui, appena 17 anni dopo la morte, un editore
solerte e un appassionato raccoglitore di tutti i suoi scritti (2).
Allora la fama del Campano era già adulta e il Ferno si fece
portavoce della pubblica estimazione (3). :

Per il Ferno il Campano non teme il confronto di Curzio
Rufo, anzi gli è superiore. Et Campanus in concionibus,
ubi historiae vis tota desudat, vehementior, vivi-
dius penetrat, urget impensius, suadet dissuadetque velo-
cius, in proponendo, varior, irritando asperior, sedando et
dissolvendo aptior et facilior; summus in delectando, ubique
docet, ubique delectat, ubique afficit, semper alacris, gravis
et magnificus splendore verborum et sententiarum gravi-
tate ubique admirabilis ... (4).

(1) Campani Epist. III, 46.

(2) Pare che al Ferno venisse da I. Antiquari il suggerimento e l’im-
pulso a rendere di pubblica ragione le opere del maestro. VermiGLIOLI, Me-
morie di I. Antiquari, Perugia 1813, p. 87-8. L’editio princeps (1495) rimase
molto lontana da quella che era l’aspirazione dell’editore, la cui diligenza
s'infranse davanti all’ incapacità tecnica dei primi tipografi. Sono note tra
i bibliofili le espressioni del Ferno ‘premesse all’errata - corrige : Vis ex stulto
demens, idemque ex demente insanus fieri? Libros primus Romae imprime !

(3) ... ego enim quae a me in hunc dicta sunt ex alienis iudiciis, quia
non sum tam peritus censor, protuli. CAMPANI Opera omnia edidit M. Fernus
Romae 1495, fol. VI.

Altro segno della fortuna del libro é che il Silber prima del 31 ottobre
1495, quanto pubblicò le opere del Campano, aveva edito solo due scritti
di umanisti: una versione di Esopo di Rinuccio e le Castigationes Plinii et
Pomponii Melae di Ermolao Barbaro Catalogue of books printed in the X V.th
century now in the British. Museum. London 1916, IV, 117.

(4) Muratori XIX, 435.

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162 . R. VALENTINI

Giacomo Antiquari, il Cortesi, il Sabellico, il Volaterrano,
G. Giraldi (1) tutti rinvennero in quest'opera nuovi pregi da
ammirare, fino il numero oratorio.

Un virtuoso della retorica!

Proprio quanto basta per essere ai nostri giorni dimen-
ticati (2).
ill Ma, come è palese, tutti codesti entusiasmi, se ne ec-
M I5 cettui una frase del Ferno (3), non investono punto il valore
ill storico della biografia, si arrestano davanti al magistero del. SUM
il l’arte, alla trattazione dello stile e della lingua, come se
il | i questi pregi, e soltanto questi, fossero da chiedere allo scrit-

| tore e il resto non lo riguardasse o fosse estraneo all'opera

sua. ;
| Ma ecco che, medio de fonte leporum, sorsero il Giovio
| i con un giudizio agro-dolce e il Varillasio (4) con valutazioni
| veramente improbative ad accusare il Campano d’ aver tal- |
|
|
|
|

N mente lavorato di fantasia, da mettere in serio imbarazzo
anche i più versati in materia, che volessero sceverare il
reale dal fantastico (5).

| Nello studiare l'indole della biografia Bracciana trove-
I remo le cause di cosi difformi giudizi.

I

I sei libri De gestis et vita Braccii (6) appartengono, come
si disse, a quella attività perugina (1452-59) che costituisce È

(1) Zeno Dissert. Vossiane I, 201. Per altri giudizi cfr. : VermigLIOLI Bi-
bliografia Storico - perugina 1823, 47.

(2) Nella celebre Storia della Storiografia del Fuerer il biografo di B.
è appena fuggevolmente ricordato per quel cenno biografo su E. S. Piccolo-

| mini, che fu pubblicato come una delle sue lettere. |
(3) ** fide historiae ,, MuratORI, loc. cit.
I]

(4) J. A. Fagricn Bib. Lat. m. et inf. aetatis I, 808, Florentiae 1858.
(5) Non tengo in alcun conto le accuse del Fowrrcorawo nelle quali si
Il sente lo sfogo di una ipersuscettibilità campanilistica per certe espressioni
li contra Aquilanos. Cfr. Bellum Braccianum, Aquilae MDLXXX.

| (6) Sotto questo titolo figura l’opera del Campano nél codice N. 2360
della Biblioteca Univ. di Bologna, che ho buone ragioni per ritenere la

copia autentica presentata al destinatario.
« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 163

la più geniale e più larga operosità del Campano (1). Lavoro
giovanile dunque, e di così ardua impresa, da sentirsene, il
giovane, quasi sgomento. Allora egli soggiornava, gradito
ospite, in quella casa Baglioni ove erano ancor vivi i più
grandi fautori della gloria di B. (2) ritenuto cospicuo vanto
della casata. In parte la sagoma classica del condottiero, in
parte il desiderio di accoppiare la propria alla gloria di lui (3)
sedussero il giovane letterato a tentarne una biografia. Certo
é che in quelle pagine nulla si avverte di quell'entusiasmo
cerebrale, di quella commozione a freddo dietro la quale
cerca inutilmente il riparo l'insincerità e, a volte, il disgusto
di un argomento imposto. Non mancarono le esortazioni degli
amici, di uno specialmente, collaboratore prezioso, che nel-
l'opera occupa un posto principale. Postea ad historiam Brachii
conscribendam multorum rogatibus, uniusque potissi-
mum Petri Ioannis Bisocheti, viri Surianae suae, hor-
tatu .. tanta cum dignitate et laude perfecit, quanta, collata
acie, cum veteribus decertare possit ... (4).

(1) Campani Ep. III, 46.

(2) Non posso credere col Lesca che la scelta del soggetto fosse fatta
per una giusta idea del modo da trattare la storia e del tempo sul quale
dovesse portarsi l'indagine. Lesca, Op. cit., Pontedera 1892, 168.

(3) Qui era proprio il caso di dire che il morto portava il vivo. Di B.
il Campano s'era già mostrato entusiasta nell’ orazione inaugurale tenuta

nello Studio perugino. De scientiarum. laudibus. Ivi leggiamo : Primus, quan-

‘tum ego accepi, Brachius Perusinus omnium qui unquam bella gesserunt

praestantissimus, scientiam instauravit militarem: exercitum atque aciem
reformavit et quibus modis quibusque artibus et oppugnarentur civitates
et defenderentur induxit ;}bellumque ipse pro Alfonso (sic) Rege gessit atro-
cissimum magnumque, inde sibi atque huic Urbi nomen, decus gloriam
comparavit. Dall’ Epistolario sappiamo che 1’ orazione fu letta XII Kal.
novembres [1455] Ep. II, 1.

(4) Vita del Campano, edita dal Ferno, che però equivoca, come ve-

dremo, sulla patria del Bisochetti.

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Il Ferno parafrasa la lettera dedicatoria del Campano
a Carlo Fortebracci, la 38* del libro II. .

Ma oltre a questo vigoroso rinverdimento della gloria
dB, consigliavano al Campano la scelta di questo soggetto
ragioni che direttamente interessavano il suo amor proprio
di letterato. Il Valla, il Facio, il Panormita ‘avevano magni-
ficato con le loro storie la casa Aragonese, nella stessa Pe-
rugia l’ascolano Pacifico Massimi ricambiava con eleganti
poemetti (1) il mecenatismo di Braccio Baglioni e quel povero
poeta che fu Lorenzo Gualtieri si apprestava a cantare in
terza rima le gesta di Niccolò Piccinino, non senza prima
avere esaltato, in una introduzione ficcatavi a forza, l'alto
valore del Fortebracci (2).

Delle cui gesta era rimasta fortemente impressionata la
poesia, specialmente popolare, che ne aveva commentate e
seguite le fortune, dalla battaglia di S. Felice alla rotta del-
l'Aquila (3), in storie versificate in terza o in ottava rima.

Ma la figura di Braccio, che tuttavia più grandeggiava,
richiedeva ben altro che queste rozze esaltazioni; esigeva
un narratore che fosse assurto con l’arte all’altezza dell’uomo.
E questo volle la casa Baglioni e questo fu il proposito dello
stesso Campano: ut pari cursu ille gestorum, scriptorum ipse
contendisse ad immortalitatis spem videamur (4).

Si può precisare il tempo in cui il Campano attese a
quest'opera ?

11) Furono pubblicati dal Vermiglioli. Lesca Op. cit. p. 28.

(2) L. Guarrieri L'Altro Marte, Vicenza 1489.

Per notizie riguardanti il ms. che si conserva nella Nazionale di Na-.
poli cfr. Arch. Stor. Nap. 1882, 381 nota e Gior. Stor. della Lett. Ital.
1898, 415.

(3) S. Monpunao Imss. della Bib. Riccardiana, Roma 1900, I, 154. Fu
osservato che mentre B. fu celebrato nelle poesie popolari, fu oggetto di
vituperii e acerbe invettive da parte dei poeti aulici. U. Cowexpo Canzoni
storiche del sec. XV, Lecce 1895.

(4) Campani Epist. II, 38.
« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 165

Con esattezza non ce lo hanno detto nè il Lesca nè il
Flamini (1); ma lo stesso Campano ci ha messo in condizione
di non esser perplessi nella risposta.

Nel V libro, a proposito di un lieve incidente occorso
ad Alfonso d’Aragona, leggiamo: Qui (Alfonso) qua die, qua
hora haec scribimus, post octo et triginta, quam haec gesta
sunt, annos, vita decessisse nuntiatur (2). Era dunque per-
venuto a quel punto della sua narrazione, quando la notizia
della morte dell'Aragonese corse per l'Italia (fine del giugno
del 1458). E tre mesi e mezzo piü tardi era pronta la prima
redazione — che rimase in sostanza definitiva —- dell’ o-
pera (3). La quale pare sia stata presentata dal Campano in
persona a Carlo Fortebracci. Lo afferma il Ferno e lo hanno
ripetuto quanti hanno parlato delle deferenze che aveva per
i letterati Sigismondo di Pandolfo Malatesta (4).

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* *

Ma ai fini di questa ricerca interessa precipuamente
conoscere come il Campano intese l'ufficio di storico. E per
questo lo seguiremo : a) nella ricerca del documento, b) nella
stesura del lavoro, c) negli scopi che si propose.

a) A bene intendere quale compito fosse riservato allo
storico e quali indirizzi e metodi allora si seguiSsero, por-

(1) Giorn. Stor. Lett. Ital. XXI (1898) 412.

(2) MuraroRrI XIX, 581.

(3) Lo attestano le date decimo VI° Kalendas novembres Mo CCCCo LVIIIo
che ci dànno concordemente il Cod. Bolognese, già citato, e il Vat. Lat.
2048 fol. 185 v (B. Nogara Codd. Vatt. Lat. III, 429) su i quali ho basato
il testo della tutura ristampa Muratoriana. |

(4) Saputo che il Campano era di passaggio per Rimini, per recarsi a
presentare a Carlo Fortebracci la biografia del padre, il Malatesta, che non
conosceva lo storico se non di fama, mandò a rintracciarlo nel suo umile
albergo e lo accolse e lo trattenne nel proprio palazzo. YriARTE Un condot-
tiere au XV siècle, Paris 1882, 78.

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166 R. VALENTINI

tiamo per un momento l’indagine sopra un'altra biografia
del Campano, che non vide mai la luce; le gesta di Federico
di Montefeltro. i

Sia per le sue sollecitazioni, sia che restassero favore-
volmente impressionati dalla biografia Bracciana (1) accolta

- con tanto plauso, Ottone e Nicodemo Colonna (2) gli otten.

nero l’incarico di comporre una nuova biografia per Federico
di Urbino.

A sentire il Campano, dopo la divulgazione della vita
di Braccio, non mancò chi gli commise onorifici incarichi;
tutte richieste che egli respinse per attendere unicamente
al nuovo lavoro (3) Quia sperabam fore ut omnia quam
primum ad me explorata et comperta deferren-
tur, tum rerum magnitudine adductus. Sed eorum negli-
centia res tota defriguit. Nam dum verba dant, nec con-
quirunt quidem res a duce gestas et me .. demo-
rantur quominus aliud aggrediar (4). i

La ragione dunque della scelta poggiava nella speranza
d’aver presto a disposizione un cospicuo materiale storico,
raccolto da altri, da fondere in un corpo classicamente fog.
giato. Ma gli eventi non seguirono conformi alle speranze
concepite e per quante sollecitazioni egli rivolgesse al poeta
Agostino Staccoli, a Federico Galli, forse anche a Pierantonio
Paltroni (5) i documenti vennero meno e il lavoro rimase

(1) Campani Ep. III, 46.

(2) Ibd. III, 45.

(3) Quaedam post illud tempus fuere proposita scribenda, quae nos tam-
quam occupati, reiecimus omnia: erant enim qui ad res gestas Nicolai Pic-
einini complectendas non mediocriter hortarentur quae et magnae essent et
Brachium, cuius vitam scripsimus, serie quadam temporum et rerum gesta-
rum subsecuturae viderentur. Vedi a proposito l'aecenno entusiasta al Pic-
cinino nella Vita di Braccio. MurarorI XIX, 561.

(4) Campani Apist. III, 46.

(5) La Cronaca di Giovanni SANTI circa la vita di Federico fu edita per
la prima volta da H. Holtzinger, Stuttgard 1893.
« DE GESTIS ET VITA BRAOCII » DI A. CAMPANO 167

arenato. E se ne dolse con lo stesso Federico: Historiam tuam
non mea culpa sed potius, dicam pace omnium, vestrorum
negligentia non concinnavi. Scripsi ex Tiferno mitterent re-
liqua documenta; non miserunt: ita et opera et tempus de-
perierunt (Ep. IX, 19) (1).

Così allo Staecoli: Historiam illustrissimi comitis incoha-
tam a me, non mea tarditas, verum ... aliorum neglegentia
distulit. Mihi vero ... propositum nunquam defuit continuandi

sed instructores sine quibus historia nulla,
auctor vanus esset (2). Perché chi non fu testimonio del fatto,
quando il documento difetta, é forzato a ricorrere all infor-
mazione orale e allora appunto rischia di non far piü della

storia! .. Neque enim interfuimus ipsi gerendis rebus, ut

pure integritas qualem oculis accepissemus et
victoris et victi servari posset; sed erant omnia ab iis
perquirenda qui, ducem illum secuti, pace belloque inter-
fuissent. Quorum studia non dubitas fuisse futura et ad ex-
tollendas victorias et extenuandas calamitates propensiora?
Haec ratio maxime omnium me, ut nihil susciperem scri-
bendum, detinuit (3).

Nel timore di riuscire parziale o di alterare la verità
preferisce non scrivere; uno scrupolo inatteso in un uomo
che, a sentir dire, faceva della pseudo storia!

(1) Attribuì la mancanza dei documenti « vel insigni temporum avaritia,
vel Dom. Secretarii tergiversatione (Ep. IX, 29) ». La vita di Federico era
stata narrata nei diarii in prosa di Pier Antonio Paltroni, un'ombra del Duca,
a lui stretto da vincoli di amicizia più che di sudditanza. A codesta biografia,

che servì di fonte al Baldi, al Muzio, al Reposati, a Giovanni Santi, al-

lude il Campano? G. Zannoni pubblicò i commentari di F. Filelfo sulla.

vita e imprese di Federico in Atti e Memorie della R. Dep. di S. P. per
. le Marche vol. V.

(2) Campani Epist. IX, 16. Ugualmente per mancanza di materiali ri-
mane in bozza un’altra compilazione rapida ed affrettata della vita di Fe-
derico, il Commentario di F. Filelfo. G. Zannoni Zbd. 396.

(8) Campani Epist. III, 45.

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| 168 : R. VALENTINI

Criteri di onestà che ritornano in altra lettera allo stesso
Federico in forma di consiglio e di raccomandazione (1). Tu
vero cura ut omnia tua facta, etiam, cum potes, dicta,
ad me deferantur ea fide ut neque detraxisse tibi
de tuis laudibus quicquam neque arrogasse quae
ad te non pertinent videaris .. Provide; vel minima
quaeque erunt colligenda, ut sit unde amputare aliquid liceat,
desiderare non sit necesse.

E da un esame sommario di questo frammento (2) della
vita di Federico lo stesso Zannoni rilevó che fino a quando
il Campano ebbe copiosi materiali, si limitó a spargervi sopra
il belletto del suo latino e il lavoro ha, per lo meno, il merito
di una salda informazione storica, quando poi l'opera del-
l’instructor venne meno, si trovò a disagio, erró, spropositò (3).

A questo punto fermiamoci a rilevare brevemente i prin-
cipi ed i metodi seguiti nella ricerca del materiale in codesta
biografia che seguì a 16 anni di distanza la vita di Brac-
cio (4).

Anzi tutto il cercatore del documento, il raccoglitore
del materiale (instructor) è persona diversa dall’ estensore
del lavoro (auctor). Il quale mette le mani su questa congerie
di notizie frammentarie, ricercate fino alla minuzia, all’ aned-
doto, al tratto di spirito; amputa, sutura, valorizza i fatti più
salienti, scivola su qualche punto scabroso, drammatizza
questo documento bruto e morto, alita un soffio animatore
su questa materia amorfa che dovrà ripalpitare sotto una

(1) La lettera, autografa, sfuggita alla silloge dell’ Epistolario, fu pub-
blicata dallo Zannoni in Atti R. Acc, delle scienze di Torino 1908, 115 segg.

(2) L’opera non fu mai considerata dall’autore come perfetta. Opus
tamdem ab illustrissima dominatione tua mihi iniunetum peregi quidem, sed
ita ut res quaedam magna ex parte absolutae, maiores tamen ad telam re-
linquantur Campani Epist. IX, 52.

(8) Zannoni Op. cit. 112. i

(4) Il Campano attese a questa opera tra il 1473-4, quasi contempora-
neamente al Filelfo.
« DE GESTIS ET VITA BRACCH » DI A. CAMPANO 169

veste stilizzata all’esempio di Cesare o di Livio. E, badiamo,
le calde raccomandazioni al mandante o all’instructor di ispi-
rarsi alla integrità dei fatti escludono nel decoratore o esten-
sore la volontà di deformare anche minimamente la verità.
Sulla onestà e probità del quale non poteva l’arte prendere
siffatto vantaggio, da renderlo inconsapevole di una even
tuale alterazione del contenuto.

Concludendo, il lavoro storico procede da una collabo-
razione dell’ instructor, alla cui diligenza e probità è affidata

la più larga e scrupolosa ricerca del materiale — abbia o
no valore storico non importa — e di un decoratore, auctor

che, chiuso in un ideale di puro estetismo, foggerà un pa-
ludamento classico adattabile al personaggio evocato.

Il valore storico dell’ opera dipenderà essenzialmente
dalla perizia dell’ instructor e da una intimità di lavoro, direi
simbiosi intellettuale, che permetta una armonica fusione di
vedute e di intenti.

E veniamo al de gestis et vita Bracci.

È anch'esso il frutto di una collaborazione che si esplica
nell’ambiente e nelle condizioni più favorevoli.

Il Campano stesso lo dichiarò, con una correttezza ed
onestà letteraria, per quel tempo veramente encomiabili,
nella presentazione del manoscritto a Carlo Fortebracci.

Qua in re quum non nihil mihi fortasse debeas, plus
tamen Petroioanni nostro (1), tui nominis ac generis
amantissimo, debebis. Ile me ut hoc scribendi munus
susciperem hortatus est; ille cuncta, ut explorata no-
bis compertaque forent, indagavit. Iacentemque
parentem tuum et iam multos exemptum annos, suis una
mecum manibus excitavit (2).

(1) La lettera à riportata a tergo dell'ultima pagina del cod. 2360 della
Bib. Univ. di Bologna, unico ms..che presenti questa peculiarità. Ivi si
legge Petro ioanni nostro perusino etc parola che fu poi espunta.

(2) Epist. cit.

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Non dunque un qualsiasi instructor, ma il figlio di una
nobile famiglia perugina, legato a Carlo Fortebracci da de-
ferente dimestichezza. E un uomo colto; che più importa.
Condizioni queste che mettevano l’instructor in una condizione
privilegiata per la ricerca dei documenti. È questi lo stesso
personaggio che nel 1445 fu scelto come ambasciatore dei
magistrati perugini al conte Carlo Fortebracci. Ed ora, anzi,
intendiamo meglio le ragioni della scelta (1).

Il Campano non ci addita espressamente le fonti del suo
collaboratore, perchè questa prova di lealtà e correttezza —
come osserva il Croce — era risparmiata al compilatore;

pure qua e là affiorano sufficienti indizi per rintracciare al- -

meno le principali e sulle quali non può cader discussione.

Occupano il primo posto gli Annali decemvirali dell’ ar-
chivio comunale di Perugia (2). Oggi, mercè le solerti cure
che alla storia di quell’antico archivio dedicò il Degli Azzi,
siamo in grado di conoscere che quella preziosa raccolta di
documenti potè fornire al Narducci un materiale storico di
prim'ordine. È stato infatti rintracciato l'inventario della
cancelleria perugina quando il 17 ottobre 1440 ne prese
possesso Tommaso Pontano; su per giù quella stessa supel-
lettile che circa sedici anni più tardi dovette rinvenire il
Narducci (3).

(1) Perini II, 548. E lui stesso dovette correre la giostra del 2 giugno
1437. Arch. stor. ital. I. 419. Mariotto d'Angelo dei Narducci, detto del Bi-
sochetto (PeLtini II, 606) nel 1452 fu mandato oratore al papa per ottenere
un aumento sulla provvigione stanziata per lo Studio (Ibd. 604). La sua
attività politica è frequentemente ricordata dal PrLumi (II, 415, 559, 665
etc) e nelle Cronache della Città di Perugia.

(2) Campani Brachii vita et gesta in Muratori XIX, 440: certissimis
eius urbis (Perugia) vetustissimisque annalibus comprobatur.

(3) E si può anche specificare il materiale che riguardava B. piü da
vicino, e cioè:

4 libri di statuti recenti (in carta bambagina).

5 volumi di statuti antichi,
« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO

Vengono poi gli archivi privati delle case Fortebracci e
Baglioni, che furono certamente a completa disposizione del
Narducci. Materiale copiosissimo anche questo, che il Cam-

pano — con un giudizio che sembra anacronistico in un uma-
nista — seppe convenientemente apprezzare.

Extant enim monumenta maiorum quae, etsi non
accurate magnificeque scripta sunt, continent tamen aliquid
quod legi possit et sint cognitione dignissima iis praesertim,
qui non tam scriptorum elegantiam desiderant, quam notitia
delectantur antiquarum rerum (1).

E la curiosa diligenza del Narducci rintracciò, non senza
vantaggio, anche le lettere di B.. Extant enim exemplaria
litterarum, eius subsignata manu, quamquam vulgari et quo-
tidiano sermone perscripta (2).

Ed esistono tuttora, e quelle originali di B. sono proprio
in volgare, come si possono vedere nell'Archivio Comunale
di Orvieto (3).

Queste le fonti precipue che ci addita lo stesso Cam-

44 volumi di Riformazioni.

5 registri di ufficiali perugini.

altro regisiro di ufficiali con le armi di Braccio. licet admodo (sic) pa-
rum discernantur.

1 piccolo libro, în cartis edinis sub assibus ligatus, capitulorum pacis cum
Rege Landislao, in quo scripta sunt certa decreta Braccij etc.

Il libro Eulisteo.

Raccolte di.bolle papali e imperiali.

13 volumi di Riformazioni dal 1417 al 1439.

Registri di capitoli, decreti, lettere e brevi apostolici.

Registri di giuramenti e promesse dei Priori. Un materiale storico in-
vidiabile! Cfr. Dxarr Azzi. Per la storia dell’antico archivio del Com. di Pe-
rugia; in. questo Bollettino (1904) pagg, 23, 29.

(1) Campani Op. cit. p. 400.

. (2) Ibd. p. 458. i
(8) Alcune videro già la luce nel mio studio: B. da Montone e il Co-

mune di Orvieto in questo Bollettino 1922 e 23.

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pano (1); ingente materiale documentario che per di più
poteva essere colorito, vivificato, corretto, controllato da una
tradizione orale ancor viva e presente, se non scevra di
superstite passione.

Se anche dalla lettura della biografia non si avesse la
precisa senzazione di trovarci a volte davanti al ricordo
immanente di un testimone, ci dichiara lo stesso Campano
d’aver colto il racconto dalla bocca dei sopravvissuti — ed
erano molti —, d’aver sentito evocare con tanti particolari
i ricordi, da potersi considerare egli stesso un postumo spet-
tatore. Et qui eius gerendis rebus interfuerunt, ita eas me-
moriter solent narrare, ut ipse quoque mihi, qui non dum
eram, videar interfuisse.

Perugia e il contado non difettavano di testimoni oculari
che avevano seguito il capitano nelle continue spedizioni, e
il Narducci e il Campano li avevano sentiti ad uno ad uno.
Nella casa Baglioni del resto erano vivi i principali artefici

della grandezza di B., ma il biografo preferì non nominarli.

o per sfuggire alla taccia di partigianeria o per non infirmare,
col sospetto, il valore della testimonianza.

Fece al contrario espressa menzione di un valoroso ca-
porale di B., Angelo Paggio, che al senno dell’ esperienza

(1) Che egli avesse notizia della breve biografia di B. nel De viris
illustribus di E. S. Piccolomini, è certo; ma con altrettanta sicurezza si può
ritenere che le due narrazioni procedono in assoluta indipendenza: tante e
tanto accentzate sono dovunque le discordanze.

L’opuscolo del Piccolomini rientra nei limiti cronologici 1444-'50 (A.
Wiss Aen. Syl. Piccolomini ete. Graz 1897, 57); e nella più corretta edizione
si legge in Bibl. d. literarischen vereins in Stuttgart B. I. (1848) p. 10 segg.

Additare con qualehe precisione altre fonti sarebbe imprudente. A
dir vero qua e là, specie in argomenti di dominio storico plu lato, quali le
imprese di Ladislao, la guerra Aquilana e Napoletana, punti di contatto con
scrittori sincroni o di poco anteriori non mancano, ma si tratta di coinci-
denze su fatti notori. Il Campano manifesta subito la sua indipendenza con
Pomissione, certamente voluta, di quanti avevano fatto menzione di B. per
appellarsi a fonti insospettabili.
« DE GESTIS ET VITA BRACCII >» DI'A. CAMPANO 173

accoppiava la sincerità del ricordo. Retulit mihi Paggius, vir
manu strenuus, nunc etiam aetate venerabilis, qui bello in-
terfuit (guerra aquilana) et ducis a latere nunquam disces-
Bibo olo OD):

Dei nobili che avevano potuto assistere alla rapida ascen-
sione e vertiginoso tracollo del condottiero ricordó il solo
Cinello Alfani: « In his erat Cinellus, ex Brachii natus ma-
tertera, qui iam prope centesimum natus annum aetatis sen-
sum et prudentiam et memoriam retinet (2).

Un guerriero dunque e un uomo politico, più prezioso
testimone il secondo che aveva assistito B. in ardue que-
stioni politiche e nel governo del suo stato, e capace di va-
lutare e conoscere elementi che ad un uomo d'arme potevano
anche sfuggire.

Quanti passi della biografia ci fanno ancora sentire questa
minuziosa indagine portata su inezie di dettaglio o su que-
stioni gravissime con volontà determinata di scoprire il vero
a ogni costo! (3).

A questo largo contributo del ricordo superstite il Cam-
pano e il Narducci non seppero rinunciare, tanto più che la

(1) Muratori XIX, 619. L. Spirito (Gualtieri) ricorda lo stesso perso-

naggio nella campagna contro lo Sforza. (L’Altro Marte Cap. XXIV).
Quivi è di Braccio ciascun paladino,
Quivi è dell’arte militare il fiore,
Dainese el grande, el Paggio, e Caldarino.

E quanto ai priori Perugini fu necessario un uomo che andasse a N.
Piccinino in forma di privato ambasciatore (1480) fu scelto Angelo Paggio
« come huomo talmente a lui confidente et amico, che non se ne potesse
prendere alcun sospetto » Pellini II, 414. Nuova prova, questa, della stima
che ancora venti anni dopo doveva circondare questo valoroso soldato di B.
Il Bonincontri ci parla di tal Gaspare Pagio, fugato dallo Sforza nel 1405.
Annales apud Muratori XXI, 94.

(2) Murarori XIX, 515.

(8) Li addito soltanto alcuni per amore di brevità. La prima cifra indica
la colonna, la seconda la linea, computando dall’alto: Murarori XIX, 496,
54; 502, 48; 508, 72; 559, 38; 560, 17.

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|
È 174 R. VALENTINI

pluralità dei superstiti, quando fosse venuto meno il controllo
del documento, permetteva di esercitare sulle varie versioni
quel tanto di critica che permettesse l'eliminazione di pro-
babili deformazioni della verità. Questa tradizione orale,
usata con le debite cautele, rese allo storico non dubbi ser-

I vigi quanto ad informazione, che spesso — e pur troppo bi

IM Is .non sempre nelle contingenze piü salienti — scende alla 1
il E più trascurabile informazione di cronaca. Erano amici e ne- È
Il mici del capitano che ancora tenacemente ricordavano; da È
tutti c'era un dettaglio da apprendere per completare una È

paziente ricostruzione o meglio interpretare un avvenimento.

Mi riserbo di dire più oltre delle influenze dovute, nella
stesura a questa specie di innesto di materiale vivo sul do-
cumento freddo ed inerte; quanto alla valutazione storica
della biografia esso nocque notevolmente. Perché qnando il
tempo ebbe dispersi i superstiti e restó il solo documento

bruto, ai critici — che perdettero di vista che il Campano
scriveva una storia. contemporanea — la biografia apparve
| come una poetica fantasia.

Inutilmente egli aveva protestato .. omnia certa a
| nobis explorataque scribuntur (486). La notizia in-
| controllabile fu ritenuta finzione; alla cospicua informazione
documentaria nessuno pensò più, e l’autore fu un poeta della
RE storia, espressione eufemistica di falsario e impostore! E
TM dire che i due collaboratori ebbero la sensazione di aver
il richiamato un morto alla vita; vita salda e reale, di Corpo
tangibile, non di ombra vana e fittizia (1); e di avere pru-
dentemente rinunciato anche a quella parte di vero che, a
dirla con Dante, ha faccia di menzogna. Nonnulla tamen,

(1) Campanus Carolo Fortebraccio Imperatori S. Mitto ad te parentem È
tuum; non liniamenta solum atque articulos qualis e pictorum manibus P.
prodire solet effigentem, sed loquentem, pugnantem et tandem nunc excita- |
tum ab inferis in hanc demum ad te lucem exeuntem. Epist. II, 88.


« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 175

quamquam certi erant auctores, quia superare fidem
videbantur, sponte nostra praetermisimus (437).

Del resto non mi pare che il Giovio fosse il più indi-
cato per tacciare il Campano di adulatore e poeta, nè tam-
poco che il suo giudizio possa essere preso in una conside-
razione superiore al merito del critico. Noi abbiamo seguito
un devoto ammiratore di B., il Narducci, nella curiosa ri-
cerca di un materiale storico, investigato con la diligenza
di un devoto ammiratore ; abbiamo’ sentito da parte dell’ e-
stensore proteste di inequivocabile onestà di intenti e pro-
positi : davanti a tutto questo sta il giudizio improbativo di
un Giovio (1), basato su quel tanto di incontrollabile che è
definitivamente scomparso con i superstiti del condottiero.

Io posso dire che quando mi sono provato a saggiare
— e il sondaggio s' è esteso a tutta la biografia — al pa-
ragone di documenti inesplorati o di fonti indipendenti an-
che i particolari di questo racconto, ho dovuto constatare
che in rapporto all'informazione storica, se non in tutti i
particolari, resiste per lo più saldamente. E quando, trat-
tandosi di elementi di scarso valore biografico, disperava
di ogni controllo, eccoti un ignoto scrittore di cronache,
neglette per secoli, confermare l’ affermazione del Cam-
pano (2). Il che lascia adito alla speranza di nuove palmari
conferme, quando molto materiale, ancora inedito negli ar-
chivi di provincia, avrà gettato nuova luce su tante figure
secondarie di questo tormentato periodo della vita italiana.
(1) Il quale si provò anche in una biografia; quella di M. A. Sforza.
Scritta senza alcun ordine, dice il Litta, le rimane il pregio dello stile e del
nome dell'Autore. Misc di Stor. Ital. VII, 99.

(2) Murarori XIX, 540 c. Hinc vana illa vulgi opinio daemonem praesa-
gum atque interpretem rerum futurarum cristallo inclusum habuisse atque
eius monitu cuncta foris domique gessisse.

Si tratta di una diceria popolare e dalle labbra del popolo raecolta,
confermata da un povero cronista spoletino P. Zampolini ... illu havia spi-
riti diabolichi incantati al^ suo comandu per li grandi avisi et voluntà de for-

tuna. Sansi, Documenti storici in Acc. Spoletina Foligno 1879, 149.

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| 176 R. VALENTINI

E so che il Pellini — il quale quando tratta di storia
perugina procede sulla scorta di una solidissima documen-
tazione (1) — s’ appellò più volte all’ autorità del Campano,
che teneva in massima considerazione e preferiva ad altre
fonti, come confermano i giudizi espressi (2) e l'onore tri-
butatogli di una versione italiana (3).

Stabilito così che in fatto di euristica troviamo già de-
lineata una certa consapevolezza metodica, vediamo se è
ammissibile che, consenziente il Narducci, il Campano nella
stesura abbia intenzionalmente alterato il documento per il
raggiungimento di effetti artistici, o, peggio, abbia connesso
i particolari ed i fatti secondo motivi di sentimento.

8) — Alla stesura presiedettero indubbiamente criteri
di ordine letterario ed estetico: estetica che opera tacito
quodam sensu, sine ulla ratione et arte.

Rimpolpata con la tradizione orale l' architettura sche-
letrica dei documenti, occorreva foggiare questo corpo sopra
una sagoma classica, sacrificando all'arte quel minimo com-
patibile con una rappresentazione veridica e realistica de-

(1) Cfr. A. Rossi, Pompeo Pellini e le sue storie di Perugia, p. 11. Dalle
deliberazioni del tempo apprendiamo che ebbe licenza di estrarre uno per
volta i mss. della cancelleria comunale. Scriveva la sua opera intorno al 1580.

(2) Parlando della soggezione di Perugia ad Duca di Milano, citò più
volte il Campano « che meglio di ogni altro scrittore ha di queste partico-
larità trattato ». PeLuini II, 119; altro giudizio è a p. 195.

E pur quando il nostro dissente da gli altri storici, il PeLLINI non esita
a riferirne il racconto: « non me parendo di poter lasciare a dietro l'opinione

del Campano, così perch'egli è scrittore di molta credenza e giudicio, come

anco perché di queste attioni — essendo elle non state fatte quasi tutte a’
tempi suoi — potette haverne particolar ragguaglio e notitia da quelli stessi

che vi s’erano ritrovati presenti (II, 175).
(3) Vedi in proposito PeLLIni, Parte I, 1038.
« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 177

gli avvenimenti, Fu questa la fatica riserbata esclusivamente
al Campano, e noi non sappiamo se quei giudizi dei primi cri-
tici, che sembra abbiano sbadatamente trasferita la valu-
tazione dal campo storico a quello letterario, non abbiano
E voluto tenere distinte le due responsabilità dell instructor
e dell'estensore. Cosi che la loro critica investirebbe proprio
la parte riservata al Campano.

Constatiamo anzi tutto che la biografia discende, lette-
rariamente, dalle forme classiche e le continua: nulla di co-
mune con quegli encomi, abbozzati con intento parenetico,
sul tipo de viris illustribus; ma un racconto impostato su im-
palcatura solida, a larghe linee, esemplato su Nepote, Sve-
tonio, Plutarco. E una biografia che miri soltanto a solle-
varsi all'altezza di questi modelli, diciamolo subito, ha ben
poco a che far con le nostre; non è quindi la storia dell’uf-
ficio ideale che un individuo adempie nel proprio tempo e
nella vita dell'umanità. Biografie in questo senso l'antichità
non le possedette (1).

Del compito dello storico il Campano tracciò dietro la
scorta di Cicerone (De Orat., II, 62) alcune leggi fondamen-
tali, a cui s'attenne, prima e dopo, scrupolosamenie.

Ardua res est et perdifficilis historiam scribere ... vult
omnia sonantia, gravia, iucunda; summum ordinem, exqui-
sitam diligentiam, ut pressa distincte, grandia magnifice, il-
lustria splendide et denique omnia ornate politeque scri-
bantur.

Sit candor orationis non interruptus aut aestuans, sed,
quantum fieri potest, sedatus et profluens, tum, ut consilia
eventusque consiliorum explicentur, describenda loca, po-
nendae ante oculos acies, id est ita res ipsae aperiendae,
ut historia, quam scribas, non fabula esse videatur (2).

(1) Croce Op. cit. p. 28 e 174.
(2) Campani Epist. V, 1.
178 R. VALENTINI

Codesti canoni si riferiscono alla eraedificatio cicero-
niana, posita in rebus et verbis.

Per le esigenze della ratio rerum (materiale storico) il
Campano raccomanda l'ordine cronologico, e una vigile di-
ligenza; per ottenere la exsplicatio consiliorum | et. eventus,
cioè una narrazione delle azioni nel loro preordinamento ed
effetto, esige la drammatizzazione del racconto, ottenuta con
tutti quei mezzi che la rettorica suggerisce.

Circa la ratio verborum (esposizione) si prova a raggiun-
gere quel genus orationis fusum atque tractum, ciceroniano,
adombrato nel candor orationis sedatus et profiuens.

Convinto che la storia non possa passare all'immorta-
lità se non per la voce di un oratore (De Orat., II, 56) lui,
il Campano, che aveva tentato di sollevarsi con consape-
vole imitazione a siffatti canoni d’arte, è umano che se ne
faccia anche un pregio, quando ebbe creduto di averli in
certo modo raggiunti (1).

Constatare l'attuazione di codesti principi val quanto ri-
cercare nella biografia l'eventuale eliminazione di parti in-
grate all'arte — cosa non sempre afferrabile — o l'immis-
sione di elementi non storiografici — il che riesce più age-
vole — costituiscano pure una parte integrante e quasi un
obbligo delle teorie accettate.

Il Campano muove della nascita di B. per accompa-
gnarlo, attraverso alle prime affermazioni nelle armi, fino
alla battaglia presso il castello dell'Apiro (1368-maggio 1409).

Il triste quadro dei mali delle fazioni in Perugia lo
porta a piangere con accenti accorati — quali udiremo

(1) Zbd. III, 46. Vedi anche II, 39: qua in re quanto potui studio co-
natus sum sic servare historiae dignitatem, ut magnitudini gestarum rerum
orationis amplitudinem accommodarem. Et quae magnificentius gesta forent
ea et gravius et illustrius explicarentur, caetera pressius iacerent. Orationes
etiam plenas spiculis, non illis oratioriis atque forensibus, sed quibus historia

tanquam in acie communis (?) uti consuevit.
« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 179

dal disperato ardore di unità nazionale che arse nello spi-
rito del Machiavelli — la sua Italia, corsa, divisa. Scarsi
gli elementi classici decorativi; principale l’accenno alla di-
scendenza dai Barca, a cui l’ autore nega per primo ogni
fede con una delle solite formule tanto accette agli storici
classici (1). La delineazione del carattere fiero, sdegnoso e
leale del giovane B. è ottenuta con un rapido colloquio con
Biordo Michelotti, e ricalcata, nelle linee principali, con una
presunta lettera ad Alberico da Barbiano. Le brevi parole
attribuite a Lodovico Migliorati, e riferite in forma indiretta,
ti fanno sentire le strettissime difficoltà economiche con cui
lottò B. per costituirsi un primo nucleo fedele.

Ci saremmo aspettati che il Campano avesse insistito
sulle persecuzioni patite dal padre di B. dalla rabbia faziosa
degli avversari, ma l’ omissione è solo apparente. Molti,
troppi particolari di valore biografico relativo alla ancor
giovane fama dell’uomo seguono il racconto compreso nel
primo libro, tutto a informazione storica densa e resistente,
donde balza la figura leonina del giovane B. dallo sfondo
sanguigno delle lotte fratricide e dalla proditoria fine del
valoroso Biordó; modestissima la parte lasciata alla reto-
rica (2). E, sia detto subito, se qui e altrove avrò occasione
di accennare a lettere od orazioni inserite nell’ opera, non
vuol dire che io mi preoccupi di tener conto sotto qual ge-
nere letterario possa classificarsi l'elemento più o meno sto-
rico: perchè rispetto alla suscitazione dell'immagine o della

(1) Muratori XIX, 439: Quocirca mihi neque affirmare est animo propter
tam longam antiquitatem temporum diversitatemque regionum, neque negare.

Della stessa indole decorativa sono gli oroscopi sulla futura sorte del
‘condottiere.

(2) Le rapide parole di B. ai propri soldati prima di azzuffarsi con An-
gelo della Pergola (456) mettono-in rilievo un concetto dominante in tutta
la tattica militare di B.: preoccuparsi della qualità dei combattenti, meglio

che della quantità.

[
180 R. VALENTINI

riflessione o del sentimento è vano discutere per quale forma
letteraria avvenga la rappresentazione.

Braccio ci è presentato fin d’ora a capo di una compa-
gnia che opera — si noti bene — a eslusivo vantaggio del
proprio capo e dei singoli componenti: cioè gli altri nobili
perugini con lui esuli dalla patria. La compagnia, alle prese
con le prime difficoltà economiche profitta, bensi delle fa-
zioni o delle rivalità dei vari signori della Marca per ven-
dere la propria perizia e la propria forza, ma ben presto,
agguerrita e aumentata, uscirà da codesti confini per pren-
dere una parte principale, sotto la condotta di Braccio, alle
lotte della lega Fiorentina contro Ladislao.

Da questo momento, che si può far coincidere con l’ in-
successo della spedizione del Re di Napoli contro la To-
scana — primavera del 1409 — Braccio cessa di essere un
duce mercenario per dedicarsi alla riconquista della patria.
La sua partecipazione alla battaglia di Pontecorvo (19 mag-
gio 1411) è solo un breve episodio della febbrile attività
bellica della compagnia di Braccio, delle cui gesta risuona
tutto il secondo libro.

Si apre questo con la resa di Roma a Ladislao (23 a-
prile 1408) per terminare con il blocco tentato dallo Sforza
contro Paolo Orsini a Rocca Contrada (Arcevia) nel maggio
del 1413. La figura di Braccio domina l’ intiera narrazione,
serrata, per lo più veridica e piena di grande valore storico.
Le due fazioni al massimo della esasperazione sono tese
l'una contro l’altra. I fuorusciti con Braccio pronti a bru-
ciare e devastare la stessa patria pur di rientrarvi, saldi e
vigili nel vincolo dell’ odio : i raspanti decisi a vendere an-
che la propria libertà pur di ottenere armi ed oro da resi-
stere e opprimere i fuorusciti. Il racconto è tutto sonante
di assedi travolgenti, di devastazioni, di resistenze eroiche,
e la figura di Braccio prende rilievo dalla luce degli incendi
che rischiarano il territorio devastato. I vecchi cronisti con-
fermano che mai il contado sofferse danni più atroci.
« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 181

Gli avvenimenti si incalzano nell’ordine cronologico, ap-
pena interrotti da una rapida descrizione di Torsciano (476 B)
e di Perugia (477 A), indispensabili a farci intendere il corso
delle operazioni militari (1). Una orazione, tenuta da B. al
popolo di Camerino, l’unica di tutto il libro, presume di
darci un saggio della naturale abilità oratoria del condot-
tiero e della sua avvedutezza politica, che sa imporsi con la
persuasione, non meno che con la forza.

L'adulazione prende, in questo secondo libro, una forma
diremo tangibile. Nel primo era stata attribuita. a B. una
parte non trascurabile nel successo della battaglia di Casa-
lecchio, dove quasi certamente non si trovò (450): qui spetta
all’ accorgimento e all’ intuito di B. prima l’insuccesso di
Ladislao ad Arezzo, poi la riconquista di Roma e la decisiva
sconfitta del re di Napoli ... eius opera (di B.) devictum et
profligatum regem, attritum paulo ante et paene extinctum,
romanum imperium restitutum (481 E). Esagerazioni codeste
di una adulazione che non ha eccessivi pudori e che, all’in-
saputa dell’autore, si insinua nella imprecisione dei più lon-
tani ricordi; e come tali più facili a ricondursi entro i ter-
mini della verità.

La narrazione del terzo libro si apre sulla risorta for-
tuna di Ladislao per seguire B. nella sua fortunata ascen-
sione fino al 12 luglio 1416, a quella vittoria di S. Felice
che, di esule e bandito, lo fece signore della sua patria.
Permane nello storico il determinato proposito di isolare il
suo personaggio e di accentrare in lui il merito di ogni fa-
vorevole impresa; se non che l’adulazione diminuisce in ra-
gione del crescere dell’autorità e della potenza di B. Il Cam-

(1) Nelle descrizioni dei luoghi, per solito a linee rapide e caratteristiche,
troviamo una nuova prova del senso della misura e dell’ economia del la-
voro che lo scrittore non dimenticò mai, neppure quando il suo carattere,
impressionabilissimo e sensibilissimo al fascino naturale, lo avrebbe trasci-
nato a far sfoggio di qualche pittura d’ambiente nelle quali riesce di una

plasticità evidentissima.

——Ó

Ex 182 R. VALENTINI

pano mette a profitto anche aneddoti trascurabili per esal-
| i tare la lealtà inconcussa e la devozione di B. a una causa giu-
| rata (501 A), o la sua probità e generosità magnanima (479 A).

All'oratoria é stata lasciata una parte maggiore che nei
precedenti libri, conforme alle esigenze di quegli intenti che
il Campano persegue e dei quali sarà detto ampiamente
più avanti.

Le orazioni son quattro, di cui tre modelli di vera elo- i
quenza, calda e passionata, fatte di cose provate e vissute :
i brevi, efficacissime, nulla hanno di comune col vuoto di-
sperante del De Chaula (1) col ciarpame mitologico del Fi
lelfo. Il presunto discorso di B. ai legati Fiorentini è la ten-
tata giustificazione di una guerra portata contro la propria
patria. Rievocati i danni recenti e gli antichi — interessanti
i dati biografici — e la rabbia faziosa degli avversari, B.
espone la necessità, divenuta improrogabile, di finire una
vita d’esilio e di assidua inquietudine, alimentata da un odio
che lo perseguitava dovunque.

Il Campano prospetta abilmente le condizioni interne
di Perugia quando sta per abbattersi su di lei la furia in-
contenuta di B.; le ansie, i sospetti, le diffidenze, i timori
| dei cittadini assediati.
| L'orazione pronunciata agli esuli di Malatesta Baglioni
si propone di esasperare gli animi col dettagliato elenco
delle persecuzioni, stragi, sevizie, mutilazioni, aggressioni,
spogliazioni patite e ripetute ogni giorno dei 23 lun-
ghi anni di asilio. In nome dei piü teneri sentimenti, delle
piu irritanti e intollerabili offese ne eccita lo sdegno e li
spinge alla lotta di purificazione e di redenzione. Addita ai
commilitoni la viltà dei nemici, esalta la diligente prepa-
razione del proprio piano stategico. L'orazione è un modello di
ii | hortatoria : non ricalcata su schemi o luoghi comuni, ma spon-

LS ae ve pn

DEEP ISF TETI s = m

(1) Sull'opera di questo pseudo-storico vedi B. Capasso Le fonti della
storia delle prov. Napol. Napoli 1902, 208.
« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 183

tanea, commossa, nervosa, efficacissima. Il Campano riesce
a dare la sensazione di trovarti davanti ad un avvenimento
decisivo della sorte di chi lo compie, e che mette .come po-
sta la propria soppressione o l’ esaltazione.

Un altro discorso, ugualmente conveniente alla psicolo-
gia del personaggio e al momento, rivolge B. ai veterani
di tante battaglie e di tante vittorie, strappate a nemici ben
più numerosi e agguerriti. Disprezza la debolezza degli av-
versari, esalta la ricchezza del bottino, nega ai nemici un
ideale per cui battersi, affida al valore dei suoi la propria
vendetta e la vita. Rapida, robusta, insinuante l’orazione è
contenuta entro limiti ristrettissimi.

Non ugualmente felice con i suoi soldati è Carlo Mala-
testa. Il Campano non ha voluto o saputo rivivere il mo-
mento di un condottiero che pure vedeva in gioco il pro-
prio onore e le proprie sostanze, e sapeva con chi era per
misurarsi. Fiacco, retorico, ci offre soltanto qualche dato di
fatto su i contingenti dei due eserciti.

Nel quarto libro troviamo B. padrone di uno stato e
tutto intento a ingrandirlo, a danno del Patrimonio, profit-
tando dell'anarchia causata dallo scisma. Di conquista in
conquista si arriva alla marcia su Roma, dominata fino al so-
praggiungere dello Sforza.

Poco dopo entra in scena Martino V, inflessibile nella

‘concessione del vicariato, che B. voleva estorcergli. Presen-

tendo l'asperità della lotta, inevitabile, B. cominciò a prov-
vedersi largamente di denari iniziando una attività bellica
febbrile, fatta di aggressioni ingiustificate o di spedizioni pu-
nitive. Il Senese, la Lucchesia, lo Spoletano, la Marca, il Pa-
trimonio o comprano la pace a suon di fiorini o provano la
furia dei suoi armigeri. Il Pontefice non cede, deve però
rassegnarsi a rimanere in scacco a Firenze. Allora s'inizia
la prima fase della lotta contro B., combattuta invano con
le armi spirituali e, più efficacemente, con una coalizione
di forze non trascurabili da cui B. uscì salvo perché la sua

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. 184 R. VALENTINI

perizia strategica gli suggeri un abile inganno, che secondo
lui, in guerra val quanto il valore. L'intervento dei Fio-
rentini, che profittano dell’insuccesso di Gubbio toccato a
B., e della situazione critica in cui egli versava, porta alla
conciliazione col pontefice, col quale B. tratta alla pari, da
potenza a potenza, e finisce col conservare a titolo di vica-
riato gran parte delle terre usurpate. Il libro è saldamente
storico e pieno di elemento drammatico.

Le difficoltà politiche ed economiche per una pacifica-
zione di Perugia — dove era necessario trovare un modus
vivendi tra le agognate vendette dei nobili rientrati e la con-
tenuta rabbia dei raspanti spodestati — offrono al Campano
il modo di dimostrarci in B. l'uomo di stato non meno va-
lente del condottiero — neque tamen civilibus atque urbanis
rebus quam bellicis et militaribus obscurior (540 D) — con inte-
ressanti elementi biografici, che ritornano altrove (541) e dànno
opportuno rilievo alle qualità intellettuali del capitano (1).

Non mancano nel libro descrizioni minuziose piene di
forza rappresentativa, nelle quali il Campano è maestro.
L'ingresso trionfale a Perugia (538); la battaglia dei sassi
in occasione dell’ anniversario della vittoria sul Malatesta
(541); la descrizione di Spoleto (553); il passaggio attraverso
la Toscana (562); le accoglienze fiorentine e la celebre gio-
stra (564-5). Tutto è armonizzato all'economia del lavoro e
dettagliato in particolari che possono apparire, anche in una ‘
biografia, eccessivi.

L'oratoria ha nel libro una parte esigua: le brevi ora-
zioni contengono in ogni modo elementi storici che non po-
tevano essere omessi a nessun titolo. Diró a suo luogo del
colloquio tra B. e Cinello Alfani, come della breve apologia
che fa B. di sé stesso davanti a Martino V.

(1) Le avvedutezze politiche di B. concordemente furono apprezzate dai
contemporanei, come del tutto trascurate dagli storici successivi, unicamente
‘ ammirati del suo valore bellico. Il Piccolomini lo qualifica humanae pru-

dentiae magnus. Op. cit. p. 10.
TED NÉ —

« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 185

Le trattative con i legati veneti per una liberazione,
senza indennizzo, dei Malatesta, accentuano il carattere in-
flessibile di B. e rivelano le sue gravi condizioni economiche
all'indomani della conquista di Perugia; nell'allocuzione, ri-
ferita per sommi capi, alla nobiltà, pià che al popolo peru-
gino, tu avverti l'affermazione del dominio, il pugno di ferro
dell'uomo inflessibile dinanzi ai perturbatori dell'ordine pub-
blico, à qualsiasi fazione appartengano, la concezione mo-
derna della conquista sociale attraverso il merito e il valore,
non già per la via della fazione, della clientela, o della se-
dizione.

Esigua e di scarso valore la materia del V Libro.

Assoggettata Bologna al Papa, B. si riduce a Perugia per
curarne la pace interna, l'abbellimento edilizio e le grandi opere
di pubblica utilità. Scoppiano intanto i dissidi nel Napoletano
provocati dal passaggio dello Sforza — non certo volontario
— al servizio di Luigi d’Angiò. B. che allungava da tempo
lo sguardo su quel regno sgovernato dal capriccio e dai fa-
voriti di una donna, interviene anche per troncare l’eccessivo
ingrandimento del Pontefice. B. cum altiora volutaret
animo non putabat committendum ... ut sibi foret aliquando
a nimia illius (Martino V) potentia metuendum (575). Segue
la narrazione dell'avanzata di B. nel Reame fino all'arrivo
del Tartaglia, l'inviato del Pontefice, che senz'altro scoper-
tosi, riprende la sua posizione ostile.

Ma B. si libera dalla stretta dello Sforza per una dia-
bolica astuzia, secondo noi per un tradimento che costò poi
la testa al Tartaglia.

Considerevole è la parte narrativa e descrittiva. La tra-
gedia del castellano di Nocera (1), l'arrivo di Alfonso d'Ara-
gona, le accoglienze in Napoli, il viaggio per Cuma, Baia,

(1) La tragedia di Nocera e Corrado Trinci in Arch. Stor. per le Marche
e per l’ Umbria, Vol. IV (1888) 249. Vedi altresì questo Bollettino 1912,

5 e segg.

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— — 186 R. VALENTINI

Lucrino interrompono il corso monotono delle opera-
zioni (1). i i

Ma la parte più interessante del libro la troviamo nelle
orazioni. Il saluto di Alfonso.a B., che è un inno al valore
e alla fedeltà di lui, si chiude con l’ufficiale investitura del
supremo comando.

La risposta di B. dà luogo ad una disputa sull’arte della
guerra e sugli indirizzi delle varie scuole. B. sostiene con
eloquente difesa la superiorità di quella italiana e dell’arte
moderna sull’antica. Ritiene inutile al vincitore e al vinto la
strage. e sintomo di barbarie, considera la guerra come
un'arte nella quale satius est paucitate docta quam multitu-
dine imperita contendere, analizza le cause delle battaglie
senza sangue, esalta la cavalleria e — notevole in un quasi
contemporaneo del Machiavelli — l'efficienza delle artiglierie:
et rumpentes celum, nedum muros saxaque, bombardas (587).
Nega l'arte nelle guerre antiche ed esalta la durezza della
disciplina militare (2).

Siamo cosi giunti agli avvenimenti che dall'ottobre 1421
arrivano alla morte di B. È questa la materia del VI libro,
in cui la narrazione procede spedita senza elementi retorici
che valga la pena rilevare.

La guerra napoletana, maiore apparatu quam periculo
gestum, (605) si chiude con l'uccisione del Tartaglia e con
la pacificazione dei due grandi capitani B. e Sforza. Non
saprei se con intenzione, il Campano è qui palesemente par-

(1) La descrizione del Campano rapida e piena di vivacità suggestiva
non s'attarda su l’erudizione ingombrante e su vani particolari che ren-
dono meno interessante la stessa descrizione nelle pagine di TaueoporIco DI
Nyrm. De scimate (Erler) Lipsiae 1890, 158-164 cap. XIX-XXII.

(2) Il principio seguito da B. è il medesimo che informò le guerre mo-
derne dei popoli inciviliti e che trovò larga applicazione in battaglie ca-
valleresche del M. E. Vedi in proposito W. Brock Die Condottieri. Studien
uber die sogenannten. « unblutigen Schlacten » 47 e le sue citazioni dall'opera del

DeLBRiicx Ariegskunst.

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« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 187

ziale. Ingenuo e grottesco è il presentarci lo Sforza a mendi-
care a Pietra Vairana una pace da Braccio. Mancó al no-
stro la visione complessa del momento politico italiano e
delle trepidanti apprensioni dei Fiorcntini dopo l'intesa del
Pontefice col Visconti.

L'investitura del principato di Capua, considerato come
l'adito a un futuro regno (611), ci palesa i disegni di D. alla
vigilia del suo tramonto. La sua ambizione non ha più freno
e lo porta sotto le mura dell'Aquila. Il biografo appena ac-
cenna alle pressioni violente esercitate da B. sul Pontefice
per averlo almeno neutrale, né mette nel dovuto rilievo
lavversione di Martino contro quest'altra avventura, donde
tutto lasciava prevedere che B. fosse per uscire padrone del
Reame. La fatale scomparsa dello Sforza parve sommergere
con lui tutte le speranze del Pontefice, che, vistosi perduto,
suscitó mezza Italia veluti ad comunem hostem delendum
(616).

E B. soccombette. Il Campano come si rifiutò di racco-
gliere i vanti di chi si spacciò autore di codardi oltraggi,
così non tentò di violare il cupo silenzio che precedette
una morte quasi inesplicabile (1).

Da questa rapida disamina degli elementi non storio-

grafici — che potrebbero costituire quasi un obbligo della
teoria accettata dal nostro — se ne eccettui qualche esube-

ranza descrittiva, e più di un superfluo dettaglio, non ci pare
di rinvenire elementi diversi da quelli che uno storico mo-
derno avrebbe esposto sotto forma di proprie considerazioni.

(1) CiwineLLi e. XI strof. 30. Muratori AIMZA. IV, 149.

Incalzato anche sul campo dell’onore dall’ odio dei Michelotti, rivoltosi
contro gli insecutori disse loro: Lasciatemi andare, seguitemi. Siete poveri,
vi farò grandi. Se son qui battuto, non sono vinto; mi basta esser libero
per esser grande ». In questo episodio il PrccoLomsr compendió il carattere
dell’uomo fiero del suo valore, incrollabile nella sua fede, invitto nell’av-

versità. Op. cit. p. 12.

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due

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R. VALENTINI

valore e di fede che, vivo per l'odio contro i persecutori
della sua casa e della sua fazione, finisce per diventarne
presto il capo. Da esule assurto a despota della sua patria,
profitta dell’anarchia dello scisma per togliere alla Chiesa il
Patrimonio e, più tardi, si vale della stolida incostanza di Gio-
vanna II per diventare signore di un principato in opposi-
zione alla Chiesa, e pesare preponderantemente su tutta la
politica italiana.

La veste del capitano venturiero con cui passó alla
tradizione esinanisce ed umilia la grande figura. Infatti
nessuno dei suoi contemporanei lo consideró come tale. Il
Campano chiude la vita venturiera di B. con la guerriglia
nella Marca (1409) e il Piccolomini commentò con queste
parole il rifiuto di una lucrosa condotta proposta al Perugino
dal Visconti: sed homo cordatus (B.) sibi militare voluit,
nec enim desperabat Italicum sibi regnum vindicare (1).

Io mi lusingo di avere altrove (2) dimostrato che l'in-
tuizione di questi scrittori, presso che contemporanei, vide
l'uomo nella sua reale integrità, scevra da quelle deforma-
zioni le quali lo accomunarono con i capitani venturieri che
lo seguirono. Sta di fatto che egli con un esercito di esuli
Perugini lottó strenuamente per il ricupero della propria
patria. Conquistatala, B., come signore di uno stato con
esercito proprio, nei trattati di alleanza è riguardato come una
potenza e chiamato garante del diritto pubblico stipulato
nei trattati. Questo fu intuito dai primi biografi, ma agli
altri sfuggi.

*

x) Ma l'adulazione o, meglio, lo scopo encomiastico della

biografia non poteva, né doveva, consistere nell'esagerare la

(1) Ibd.
(2) Vedi il mio studio su questo Bollettino 1922 e 1993: B. da Montone
e il Comune di Orvieto.

Dal complesso balza fuori una figura d’uomo pieno di

SEZIONE TEZZE
CERERE

« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 189

parte di B. in una battaglia o le difficoltà, da cui si trovò
improvvisamente, circondato, per esaltare i prodigi della sua
strategia o del valore: nel giustificare una violenza o nel
mascherare un insuccesso. In tal materia bisognava andar
molto cauti, perché tutti ricordavano e concordemente avreb-
bero negato al Campano ogni forma di fiducia. In verità lo
scrittore si circondó d'ogni cautela per attenuare o celare
qualsiasi espressione assentatoria.

Lo volle dire chiaro nel proemio: Qui (B. si annum
quintum ante me natum est mortuus, tanto nos magis adu-
landi vacabimus suspicione.

Nella dedicatoria a. Carlo Fortebraeci torna ad insi-
stere sullo stesso concetto: Tu vero hanc epistulam (1) simul
cum opere transcribendam nemini dabis, ne, quod ipsi non
fecimus, nimis amice scripsisse historiam videamur (2).
E capitata, nel corso della biografia, menzione della na-
scita dello stesso Carlo Fortebracci, accenna all'uomo con
tanta dignità e misura, quale non seppe mai il Giovio e
quanti altri si prostuirono nella più venale assentazione.
Kalendis septembribus, paulo ante occasum solis, filius Peru-
siae ex foemina nascitur. Huic Carolo datum nomen, quem
nunc audio Venetorum exercitus imperatorem, etsi non gloria
atque imperio, spe tamen paternam magnitudinem adae-
quasse (3).

Del resto il Campano sente una naturale ripugnanza
all'adulazione. E quando la vita aulica lo costrinse, suo mal-
grado, alla assentazione, si duole con Sigismondo Malatesta
del suo disagio morale e rimpiange la libertà di un tempo.
Igitur quo in statu sim, vides; tolerabili fortasse, nisi meliore
fuissem, cum nemini nisi meis auribus blandiebar (Ep. III, 6).

(1) È la 38* del libro II.

(2) In realtà io trovai questa epistola soltanto in calce al cod. Bolo-
gnese e in nessun altro dei mss. che ho collazionato per l'edizione.
(3) Muratori XIX, 690.

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sal 190 R. VALENTINI

Dunque storico candidamente imparziale il Campano ?

Ecco: l’adulazione non poteva mancare, ma si presenta
così abilmente celata, da rimanere nascosta a quei che la ricer-
carono - e furono quanti si occuparono fin qui di quest'opera -
nelle più comuni forme o espressioni che essa prende negli
scrittori di quest'epoca.

Al principio del libro IV° il Campano ci fa assistere a
un presunto colloquio tra B. e Cinello Alfani, nel quale, con
abilità indiscussa, fa pronunciare allo stesso B. quelle accuse
che nessun vantaggio conseguito o nessuna postuma apoteosi
erano riusciti a cancellare nel vigile amor patrio degli amanti
della libertà. E l’accusa è formulata crudamente, senza eu-
femismi o sottintesi: par di coglierla sulla bocca dei contem-
poranei. Nulla turpior cupiditas et sceleratior quam patriae,
cui tu parere debeas, imperium quaerere. E poco dopo sotto
la forma di un: presentimento di B. sentiamo l'eco, non ultima,
delle maledizioni degli spiriti liberi contro il parricida : Et in
patria occupanda non modo iniustam vim, sed nefariam im-
pietatem esse subeundam (p. 534) (1).

Sulla memoria del grande perugino malgrado la recente
ammenda fatta da tutto un popolo, e i postumi onori, pesava
ancora, tenacemente superstite, la taccia del parricidio, im-
perdonabile agli occhi di chi era vissuto nelle libertà re-
pubblicane. A lavar questa macchia doveva anzi tutto esser
rivolta l'opera del Campano. E questo compito egli seppe
assolvere con l'aecortezza di un sagace patrono senza tur-
bare affatto il disegno dell'opera o accentuar la difesa con
particolare rilievo. La causa di B. é sostenuta nelle ora-
zioni e preparata con insinuazione simulata e lontana che
passa quasi inavvertita.

Comincia coll'orazione ai Camerti nel libro II (488).

Delle guerre civili difficilmente era stata scritta più truce

(1) Nel Piccolomini l’accusa è altrettanto manifesta: ac cum eo (Tartalia)
contra patriam venit. Op. cit. 10.

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« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 191

evocazione, più manifesta condanna di quella che fa B. in
quell’occasione. Ubi semel gladii vis incubuit, nequiequam
obsistas verbis, aut moriendum est tibi, aut, quod aeque
miserum est, civium tuorum clade vincendum. Utrumque
sane calamitosum et miserabile !

E dopo aver ricordato le domestiche stragi ecco l'uomo,
vittima delle fazioni, che vive di guerra per farsi vindice di
quelli che subirono la stessa sua sorte. Ego multos annos
continuum bellum gero, ut cives mei domi esse possint
(489 D). Un tutelatore dei diritti altrui contro la tracotanza
bestiale del partito imperante !

Sotto la stessa veste si presenta B. ai legati Fiorentini.
Equidem quum hoc gero bellum (contro Perugia) non mea
solum, sed multorum iura causamque defendo .. (512 D).

Quell'orazione é una fiera requisitoria contro i raspanti,
dove nessun delitto è trascurato, nessun capo d’accusa omesso.

Ma c’è qualche cosa di più: non è B. che porta la guerra
contro la propria patria, bensì è indotto ad accettarlasi — badi
bene per imporre ai nemici colla forza il rispetto dei più
elementari diritti, e per il possesso di una patria. Cum, his
nobis est bellum, quod non concitavimus ipsi, sed quia defendere
quondam fortunas nostras pace non potuimus, nunc ereptas
si diis placet, bello recuperare contendimus (513 A).

Dove é andato il promotore di una guerra contro la
propria patria a scopo di vendetta e di tirannia? Qui c'è il
forte che a tutela: del debole rischia la vita e gli averi, l'e-
sule alla ricerca di una patria, il derubato alla rivendicazione
dei propri averi. Colle armi? Dicerem etiam concordia nisi
scirem nocentes sontium animos nimia teneri pertinacia, nec
sperare ignosci sibi ab inimico posse, cui ipsi amico non
putaverunt ignoscendnm (513 B).

Nuova giustificazione della guerra è tracciata nel discorso
di B. agli esuli perugini: seconda e piü acre requisitoria
contro la fazione dei raspanti. Per gli esuli la guerra é una
tragica necessità .. nostra tamen necessitas impellat ad bel-

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.192 R. VALENTINI

| : lum (522 E), quand'anche fossero disposti al perdono. Utinam
patientiae locus foret, et quos habuimus offensores, iisdem 1 i
petentibus veniam dare possemus (523 A)! Ma non avevano |
i raspanti inviato a B. ambasciatori per comporre un accordo? 3
Misere illi quidem legatos, sed quid aliud legati quam verba
dare, belli dilationem quaesierunt? (523 C).

Tentata cosi la difesa di B. dall’ accusa di parricidio,
rimaneva da confutare o infirmare la colpa del liberticidio e
della tirannia, esercitata in danno dei concittadini. E in questa
seconda difesa si mostró anche piü scaltro che. nella prima,
| sebbene non si tratti di abilità di retore, quanto della stessa
| evidenza delle cose che milita a favore della tesi del Cam-
| pano: numquam eo animo gessisse bellum (D), ut patriae iura [
|

nefario dominatu occuparet (335 E).

il Il biografo ci rappresenta con i più neri calori l’incubo È
i atroce che pesa su i raspanti all'indomani della sconfitta : È
una situazione grave d’incognite, che inevitabilmente sembra 1

Sboecare nelle stragi e nello sterminio dei raspanti.
| | i Chi avrebbe posto un limite alle efferate vendette, alle
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rappresaglie atroci di quei nobili che avevano patito fino
all'esasperazione l'esilio, le vessazioni, le estorsioni, le perse-
cuzioni ?

| Un uomo che avesse avuto tale prestigio o forza, da far |
| | sentire ai nobili una volontà irremovibile di concedere solo T

1 quel tanto che fosse compatibile con la presenza e tutela in 3

città del partito avverso, un uomo che avesse potuto fondere a
i nella propria forza le due inconciliabili correnti, così da per- È
| mettere una convivenza civile, si presentava come un sal-
vatore della città. E chi poteva essere altri che B.? Sta qui
l'abilità del Campano o, forse, l'evidenza della stessa realtà, nel-
l'essersi creata in Perugia tale una situazione, da giustificare,
anzi, da imporre un dominatore assoluto. Tantis simul periculis
uno remedio obsisti potest: neque enim hoc invadere patriam
est, sed conservare! (534 E). E appresso: Aut civitatis im-
perium capiendum est tibi, aut ultimum urbis excidium ex-
« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 193

pectan!um. Uno beneficio exules dignitate sua recepta et
cives retenta suis in sedibus conservari poterunt (535 C).
Cosi B. da invasore e dominatore diveniva il sospirato sal-
vatore della sua patria, e una politica di assolutismo veniva
considerata come condizione necessaria per la pace citta-
dina. Cinello gli dice: si cives conserves et exules restituas
haec demum erit summa et praeclara gloria (525 B).

E francamente il problema della restituzione dell'ordine
dovette presentarsi allo stesso B. irto delle piü aspre diffi-
coltà. Comunque riuscì, grazie anche all'opera dei suoi luogo-
tenenti; e il buon successo sta a dimostrare quali accorgimenti
politici fossero in lui, che pur lottava con una crisi econo-
mica gravissima. La considerazione di questa complessa e
delicata situazione politica ed economica giustifica la risposta
di B. ai legati perugini venuti per offrirgli il dominio della
patria ... si quo pacto publicam tueri dignitatem sine aucto-
ritate sua possent, libentius se pariturum esse regnantibus in
patria, quam regnaturum (555 E).

E questa ritrosia di B. a rimanere al potere è ricantata
con l'insistenza di chi sente il bisogno di dissimulare nel-
l'uomo l' ambizione della tirannide. Invitum se (B. unum
imperare civitati, nec passurum opprimi a ceteris patriam,
quam ipse, si per factiones liceret, mallet liberam venerari
(541 A).

E dell’assolutismo nessuno aveva fatto uso più temperato
di lui — vuol farci credere il Campano — che, totus ad
conciliandos sibi civium animos intentus, publici parentis
videbatur induisse personam (540)! Quanto diversa 1’ opi-
nione del Piccolomini. Duae in ea urbe (Perugia) partes
sunt: alii nobiles, alii raspantes appellantur: hos Braccius
expulit et per varias Italiae civitates exulant (1). !

Con questa strenua difesa se il Campano non credette
di aver demolito la taccia del parricidio, dovette avere la

(1) Op. cit. p. 11.
194 R. VALENTINI

sensazione di avere attenuato la colpa che più grave pesava
sulla memoria di B.

Ma rimanevagli un altro compito, forse più arduo del
primo: scagionarlo dalle ribellioni contro la Chiesa. Lo
scomunicato, morto in contumacia, anche a questo riguardo
doveva essere riabilitato. La voce dell'accusa pubblica s'era
levata palese e il Piccolomini non poteva che constatare i

fatti inoppugnabili : Plura sibi adversus Ecclesiam bella

fuere, minitabaturque Papam expellere velle (1).

Questo secondo compito impose al Campano una precisa
idea del singolare duello che in quegli anni fu combattuto,
e donde piene di luce escono le figure dei due grandi com-
petitori. :

Il Campano comincia col lasciarci appena intendere le
cause dell’occupazione di Roma. Hanc ubi subegisset, nihil
imperio suo defuturum existimabat (545). Come dirci più lar-
vatamente che la città doveva costituire la grande posta
sulla quale si sarebbe più tardi giocato il giuridico ricono-
scimento delle terre usurpate ? (2) Perchè a niente altro mirò
B. dopo l’elezione e il riconoscimento di Martino V. E quegli,
ostinato nel più deciso rifiuto, senz’altro considerava B. re-
ligionis hostem devotunque. Quod, commenta lo storico, se-
minarium futurae contentionis fuisse putant (549). Putant!
L’opinione non sarebbe la sua, ma il racconto è condotto con
così evidente parzialità, che quasi sei portato a condannare
la caparbietà di Martino che escludeva qualunque punto di
contatto tra le due opposte aspirazioni. Vero è che le due
autorità, pontificia e imperiale (3), erano così miseramente
scadute, che il nostro storico lungi dall’avvertire l’arroganza

(1) Ibidem.

(2) I cronisti posteriori non intesero il fine di questa mossa, che ap-
parve loro come una mal riuscita depredazione. Sieismonpo DEI ContI, Le
storie dei suoi tempi, I, 19, Roma 1883.

(3) Sed hodie adeo depressa est imperialis potestas, quod magis hono-
ratur et veneratur etiam a maximo usque ad minimum aliquis capitaneus

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« DE GESTIS ET VITA BRACCII » DI A. CAMPANO 195

nelle offerte di alleanza e di protezione avanzate da B. al
pontefice, stigmatizza l’ostinazione di Martino (552), fiducioso
di abbattere l’avversario con le arti della più perfida politica.
E quante volte lo vediamo scendere al livello del più arrab-
biato signorotto del tempo e, come accadde in Firenze, ordire
una guerra nello stesso momento in cui si celebrava una
pace!

Avvilita cosi la figura del Pontefice, nè intendo dire con
questo che violentasse la verità, si dispone a far pronun-
ciare allo stesso B. l’apologia del proprio operato nei riguardi
della Chiesa. L’ orazione in forma indiretta è riferita per
sommi capi. Le vicende che avevano travagliata la Chiesa
negli ultimi anni si prestavano opportune all’ equivoco di
presentare in veste di protettore chi aveva evitato con la
propria forza lo smembramento del Patrimonio (1). E il
Campano, che con una convinzione ostentata vede in B. il
tutelatore della Chiesa, trova anche le sue buone ragioni
per far sentire a Martino il risentimento di B. per l’imme-
ritata scomunica e far mormorare a un pontefice presso che
una parola di scusa!

Questi fini, tacitamente quanto tenacemente voluti e com-
messi all'abilità del Campano, non costituiscono forme di
idealismi preconcetti, che portino necessariamente alla giu-
stificazione o alla deformazione delle azioni del Perugino.

Concludendo, il Campano seppe tutte le spinte interiori
che incalzarono le azioni di B., dalla vendetta alla sfrenata
gentium armigerarum in Italia quam imperator vel Rex Romanorum. De
Scismate Ed. cit. 218 nota, Vedi altresì Torranin Machiavelli e il Tacitismo
p. 72.

(1) L’idea della secolarizzazione dei beni della Chiesa non era di qualche

solitario, ma s'era fatta strada nell’ opinione dei contemporanei. Romano
Niccolò Spinelli da Giovinazzo in Arch. Stor. Nap. 1901, 495.

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196 i R. VALENTINI

ambizione di un regno. Conforme a queste il personaggio,
sempre identico a sè stesso, opera e parla.

L’ informazione orale limitata al campo visivo dei testi
e la mancanza di documenti, tratti dalle parti avversarie,
portarono ad una specie di isolamento del personaggio, ad una
difettosa comprensione del peso preponderante che esercitò
in tutta la politica del suo tempo e, a volte, ad una totale in-
comprensione dei complessi fattori politici ed economici che
determinano gli avvenimenti. Questi difetti conferirono alla bio-
grafia quell’ aspetto esteriore di un avvicendamento di azioni
belliche nelle quali sembra esaurirsi l'opera dell'uomo. Donde
nella tradizione posteriore e negli studiosi meno ponderati
prende consistenza l'atteggiarsi del condottiero e del politico
a quella forma di capitano di ventura che risponde solo in
parte minima all'anima, alle. aspirazioni, alle imprese del
Perugino.

L'elemento narrativo e descrittivo non é certo sover-
chiante, le orazioni, pienamente intonate al momento ed ai
fini dei personaggi che operano, contengono dati di fatto o
considerazioni indispensabili, quando non sono ordinate ai
fini precipui dell’ opera.

Di contro a qualche difetto ed ai vizi di cui s'é discusso
sta poi tutta una diligente documentazione, diretta più sui
particolari che sulle determinanti dei fatti, della quale in
un giudizio va pur tenuto il debito conto. :

Lo so, queste mie constatazioni non possóno né preten-
dono assumere un carattere generale, ma io non potrei a
euor leggero sottoscrivere a quei sommari giudizi che con-
siderano la storiografia umanistica come una vana esaltazione
letteraria e formale, popolata di classiche chimere, trasportate
nella politica dall'arte, dalla letteratura e dal costume.

R. VALENTINI.
Un altro importante documento sulla moneta casciana

Nel 1921 sulla defunta assegna Numismatica edita a
Napoli e diretta dall’ illustre numismatico Memmo Cagiati
pubblicai (Fasc. 11 e 12) una monografia sulla moneta bat-
tuta nel sec. XV dalla Repubblica Casciana. Interessanti do-
cumenti feci allora noti, e chiarissimi numismatici italiani
suffragarono con le loro lodi e con la loro approvazione il
mio modesto scritto. Però, poichè della zzozeta casciana non
trovasi a mia cognizione alcun esemplare, è necessario non
lasciar ignoto alcun documento che ad essa si riferisce e
che di essa attesta la passata esistenza.

Frugando per altre ricerche nell’ Archivio comunale di
Norcia, ho trovato un volume manoscritto contenente una
serie di relazioni per le città ed i paesi dell'Umbria compilate
verso la fine del secolo decimottavo dall'avvocato Angelo
Benucci per incarico della S. Congregazione. Esse servirono
per la formazione del catasto del 1785, che — ad esempio
per Cascia — sostituì il precedente catasto del 1665.

Tale essendo lo scopo, è naturale che il loro maggiore
svolgimento tratti della topografia e dei rilievi catastali dei
singoli paesi. Però verso la fine di ogni relazione trovansi
anche notizie sia di storia, sia di necessità contingenti, di
attività commerciali, di indole e numero degli abitanti, di
clima, di bellezze panoramiche, di istituti religiosi, di anda-
mento di pubbliche amministrazioni ecc. Materiale sia pur
assai sommariamente trattato, ma prezioso, perchè fornisce
con brevi tratti, la figura caratteristica e peculiare di ciascun

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198 e A. MORINI

paese nel suo passato più o meno glorioso, e segnatamente

al tempo dello scrittore.

Il manoscritto comincia con la relazione riguardante
Perugia compilata il 2 novembre 1780, e finisce con la re-
lazione dell'Abbazia di Ferentillo in data 26 febbraio 1783.
Esso non è numerato; ha complessivamente 504 pagine ma-
noscritte; è legato in pergamena, e misura cm. 29 x 20; il
dorso ha un’altezza di cm. 8. Le relazioni son cucite le une
di seguito alle altre, e ciascuna di esse è preceduta da un
sommario numerico dei capitoli, nei quali la trattazione è
divisa. La scritturazione è fatta sulla metà sinistra del foglio,
mentre sulla metà destra son ripetuti i titoli dei capitoli di-
stinti con numeri progressivi romani.

La relazione su Cascia fu compilata il 4 settembre 1781;
occupa 32 pagine, ed ha 56 capitoli.

L’avv. Benucci, dopo aver notato che « i Casciani cre-
dono di non aver superiore alcuno, e vantano la loro Repub-
blica », così riferisce al capitolo LIII:

« Per dimostrare la loro Repubblica dominante £S/-
« STONO CERTE MONETE DI ARGENTO, nelle quali da
« una parte RIMIRASI Y Arma della Comunità, e dall'altra
« le parole RESP. CASSIAN. Molte nella cassa delle quattro
« chiavi ne aveva la Comunità, che ascendevano al valore
« di circa scudi quaranta; pensarono bene questi Repubbli-
« cisti (sic!) di squagliarle per farci tante posate di argento
« per i pubblici pranzi ».

L'avv. Benucci è dunque un altro teste oculare della
esistenza della moneta casciana, la quale esisteva ancora ed
ancora si rimirava nel 1781, tale quale la descrissero il Tor-
rigio nel 1639, ed il Lagét nel 1750, già riferiti nella mia
monografia, Sono certamente della massima importanza l’af-
fermazione oculare concorde e la concorde descrizione.
Questo documento rafferma sempre più la mia certezza, e
forse toglierà gli ultimi dubbi a chi — non avendo oggi sotto
gli occhi un originale della moneta casciana — ancora ten-
UN ALTRO IMPORTANTE DOCUMENTO SULLA MONETA CASCIANA 199

tennava a credere che Cascia, l'odierna piccola città perduta
tra i gioghi dell’ Appennino centrale, avesse potuto vantare
il conio di una moneta propria, e pur d’argento come avevo
già dimostrato nella mia citata monografia con documenti
sincroni. L'avv. Benucci nello scrivere non ebbe davvero
alcun velo campanilistico che ne poteva ottenebrare la sin-
cerità storica, poichè basta legger le sue relazioni per con-
vincersi dell’austerità dei suoi giudizi in genere, e segnata-
mente basta leggere con quale severità — forse eccessiva,
se ben meritata — condita quasi sempre di caustica, assai
caustica ironia, ha scritti quelli sui « Repubblicisti casciani »,
i quali sulla fine del secolo decimottavo osavano chiamarsi
e ritenersi ancora dipendenti.
Luglio, 1924.

Dott. ADOLFO MORINI.

Direttore responsabile Prof. LuiG1 TARULLI BRUNAMONTI

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